Lo Ius culturae è anche nella nobile arte dell’incontro

Roma – Tyson ha il nome giusto per boxare, e per farlo da campione. Tyson di cognome fa Alaoma e poche settimane ad Avellino fa ha vinto il campionato italiano Youth nella categoria 81 kg, perché oltre al nome giusto, evidentemente ha anche il talento necessario per essere un pugile vero. Tyson, 17enne romano di nascita, formazione e di (pesante) accento, non ha però il documento giusto: avrà anche vinto il titolo nazionale, ma lui italiano non è, perché è minorenne, è figlio di genitori nigeriani e, per la legge, è uno dei tanti immigrati di seconda generazione la cui identità resta sospesa. Perché Tyson potrebbe ambire all’azzurro, che poi è anche il suo sogno, se solo fosse italiano anche per la burocrazia. Invece no e così, dopo avere vinto il titolo, sul ring si è avvolto in una bandiera nigeriana. Verdebianco-verde, non verde-biancorosso: una provocazione forte alla percezione che si ha di una fraintesa italianità, «perché sì, per me sono italiano, ma per gli altri no», per dirla con le sue parole.

Tyson Alaoma è riuscito a far parlare di sé, a mettere sul ring lo Ius soli e lo Ius culturae, che qui si sovrappongono, e la forza dello sport ha fatto il resto. Ma oggi, lui è ancora nessuno e centomila, perché chissà quanti ne esistono, di Tyson Alaoma.

Al punto che Tyson rappresenta la realtà di ciò che, recentemente, è diventato anche un film che, qualche chilometro più a nord ma in un contesto del tutto simile, ha raccontato una vicenda che pare quasi ispirata alla sua. Si intitola L’incontro, cortometraggio dei registi bolognesi Massimo Mellara e Alessandro Rossi che, nell’arco di pochi mesi, ha vinto prima il progetto MigrArti 2017 del Mibact, quindi a fine novembre ha trionfato nella sezione “movies” del Matera Sport Film Festival. Ring, letteralmente, significa cerchio, ed è un cerchio che non si chiude, e nel film in questione il giovane pugile si chiama Amin, ha 16 anni e genitori originari del Marocco, nella sua vita non si è mai spostato da Bologna e sta per salire sul quadrato per cercare di conquistare il titolo juniores, contro un avversario soprannominato «il ghanese». Ghanese, l’altro, come lui per la legge è marocchino appunto, non italiano. Il corto di Mellara e Rossi – prodotto da Ilaria Malagutti per Mammut Film, presentato in anteprima lo scorso agosto a Venezia e disponibile gratuitamente sulla piattaforma RaiPlay – si muove sui tratti leggeri della commedia, racconta tutto ciò che di improbabile accade nell’ora prima che Amin salga sul ring: una legge sulla cittadinanza che non ammette deroghe nemmeno per una «promessa dello sport italiano», una madre terrorizzata dalla scelta di una delle giovani figlie di indossare lo hijab perché teme che venga scambiata per un’integralista, un sottobosco di compagni di avventura di un’umanità costretta ai margini; in un film girato con attori non professionisti ma provenienti proprio da quel contesto sociale. Un’ora all’incontro, un’ora di illusioni frantumate, sino al momento in cui inizia una sfida che perde significato, «perché se vinco non cambia niente, se perdo sono il solito marocchino delle periferie». Così Amin, nel corto, vive ciò che sta vivendo Tyson Alaoma, ed è la fotografia di una realtà cieca. In fondo basta guardarsi attorno, nelle scuole, nelle strade, nelle palestre popolari, per scoprire quanti sono i Tyson e gli Amin, migliaia di ragazze e ragazzi che questa sospensione del loro essere la sperimentano ogni giorno. (Lorenzo Longhi – Avvenire)