Rossano – “Il mondo del lavoro, soprattutto in questo periodo, nel territorio della nostra diocesi, è caratterizzato da fenomeni di fronte ai quali non possiamo rimanere indifferenti. Ci riferiamo al ‘caporalato’, al ‘lavoro in nero’ e ad altre forme di sfruttamento che affliggono non solo tanti nostri concittadini, ma anche migliaia di fratelli e sorelle che vengono da diversi Paesi del mondo come lavoratori stagionali”. E’ la denuncia che arriva oggi dalla diocesi di Rossano-Cariati che, attraverso gli uffici diocesani Migrantes, Pastorale Sociale e Lavoro, del MLAC (Movimento Lavoratori Aziona Cattolica) e della Caritas, ha inviato una lettera alle principali istituzioni del territorio. I firmatari della lettera aperta vogliono “gridare con forza che questi fenomeni, in una società definita civile, non possono essere più tollerati” e chiedono a chi di “dovere il coraggio di far in modo che le dovute precauzioni vengano messe in atto, così come dichiara il dispositivo dell’art. 603 bis del Codice Penale e tutte le leggi che tutelano i lavoratori. Del resto – spiegano – la nostra Costituzione proprio all’art. 1 recita: ‘l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Bisogna, perciò, “individuare un piano strategico di lungo respiro, che coinvolga le istituzioni pubbliche, le aziende e/o cooperative che operano nella legalità e le Parti Sociali, per liberare i tanti lavoratori che sono finiti nella pericolosa trappola del caporalato, perché il lavoro sia ‘libero, creativo, partecipativo e solidale, in modo tale che così l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita’”, come scrive Papa Francesco. I firmatari evidenziano che “partendo dal fatto che i lavoratori sono già in nero poiché chiamati ‘a giornata’, vengono dal datore di lavoro sottopagati e senza tutti i necessari riguardi verso di essi. A questo bisogna aggiungere il compenso in percentuale che bisogna versare al caporale per aver trovato il lavoro. Quello che rimane al lavoratore è meno che niente”. Il “lavoro in nero” è diverso dal caporalato perché – si legge nella missiva – non c’è la relazione della terza persona. In questo caso gli accordi vengono presi tra datore di lavoro e lavoratore, ma intercorrono altre puntualizzazioni come la promessa della disoccupazione o della malattia. Questa viene versata direttamente agli uffici di competenza, per cui il datore di lavoro dichiara che i lavoratori sono in regola, ma in realtà questi ultimi non riceveranno mai un centesimo dai primi e quindi si ritroveranno a lavorare gratuitamente per un padrone, non più di una terra, ma della persona stessa. A questo si aggiunge che, per poter riscuotere l’indennità di disoccupazione e per il diritto all’assistenza sanitaria, è necessario essere in possesso della carta di identità, che si ottiene solo con l’acquisizione della residenza anagrafica. Quest’ultima, a sua volta, si può avere se si ha un contratto di lavoro regolare e un contratto di fitto, per il quale, spesso, vengono chieste somme onerose”.
Gli uffici della diocesi calabresi sottolineano, poi, che i lavoratori stranieri “verso i quali, spesso, si diffonde la convinzione che vengono a derubare il lavoro ai nativi del posto vivono in condizioni di vera e propria schiavitù. Infatti sono sottopagati o non pagati del tutto, senza servizi igienici, costretti a dormire in dieci o più in una camera, senza cibo perché non retribuiti, ricattati dai loro stessi conterranei che ne diventano caporali fino a diventare fantasmi dello stesso territorio in cui vivono”.