Sgomberi d’agosto: una risposta

di mons. Paolo Lojudice*

Roma – Possiamo chiamarla la “città degli sgomberi”: si, la città ‘eterna’, la ‘Roma Capitale’ si è trasformata in una città che fa “piazza pulita”, dove, nel cuore dell’estate, con i terremoti che incombono e con gli attentati che ci fanno aver paura, devono emergere il diritto e la giustizia…a scapito di altro.  Magari l’immondizia, quella vera, resta per le strade, ma le persone, famiglie intere con donne e bambini vanno rimosse.
Due sgomberi in pochi giorni, in due punti della nostra città, uno a via Quintavalle a Cinecittà, e uno a via Curtatone, a due passi dalla Stazione Termini: due sgomberi che hanno provocato degli accampamenti: uno, direi molto originale, nel portico della basilica dei Santi Apostoli e uno nei giardini di piazza dell’Indipendenza.  Tengo a precisare anche l’inadeguatezza del termine ‘sgombero’, usato per macerie e rifiuti e non adatto alle persone. Stiamo rivelando il vero volto delle nostre intenzioni: liberarci di qualcosa, o forse di …qualcuno. Ma è pura illusione: quelle persone esistono, sono vive, in carne ed ossa, respirano, mangiano…: sono come noi, come me come tutti…L’unica differenza è che sono nate nel posto sbagliato, sono cresciute nel posto sbagliato e, purtroppo, non vorrei dirlo, sono ‘arrivate’ nel posto sbagliato.
Mi piacerebbe pensare che sono arrivate nel posto giusto.
Perché non immaginare di accogliere, proteggere, promuovere, integrare (come ha recentemente proposto papa Francesco) migranti, rifugiati e chiunque si trova in una situazione di marginalità, italiani compresi? “Abbiamo già tanti problemi noi italiani! Non riusciamo a trovare lavoro e occupazioni decenti noi…”  Questi sono i discorsi che si propongono, dietro i quali ci mascheriamo.  Se è vero che oggi la guerra è globale, perché non pensare di rendere globale anche la solidarietà? Non si tratta di favorire alcuni a scapito di altri ma di combattere insieme, uniti dal comune ideale di costruire realmente e concretamente un mondo migliore, quello che nel linguaggio della fede chiamiamo il “Regno di Dio”, che è “già” ma “non ancora”.
Si sente dire che in mezzo a queste persone ce ne sono alcune che strumentalizzano, che approfittano di situazioni per propri interessi, i “professionisti dell’occupazione”, come vengono chiamati e viene rimproverato a noi uomini di Chiesa di difendere persone che non hanno nessun diritto e nessun bisogno, a volte veri e propri delinquenti.  Ma in mezzo ci sono anche anziani,  bambini, donne la cui unica professione è quella di essere mamme. Ecco perché non possiamo non stare dalla parte dei più piccoli, dei più deboli: perché ce ne sono, e sono anche tanti. E noi non possiamo non stare dalla loro parte. Il Comune solitamente propone accoglienze per mamme e bambini:  perché non cominciare a pensare a delle accoglienze vere per tutta la famiglia? Ci sono delle esperienze in atto: basta riproporle. E non si dica che è un problema di costi: purtroppo costano molto di più le case famiglia, in alcuni casi indispensabili, che non altri luoghi di accoglienza più autonoma per l’intero nucleo. Non servono guerre,  né polemiche con le Amministrazioni pubbliche, né tantomeno con le forze dell’ordine, che fanno solo il loro dovere di obbedire a dei comandi. Né guerre né polemiche risolvono problemi: serve un dialogo serio e serrato da parte di tutte le forze in campo, istituzionali e non, volontariato e terzo settore. Ognuno faccia la sua parte e chi non vuole dialogare si ritiri in disparte: troppa sofferenza è già stata vissuta da chi non ne aveva e non ne ha nessuna colpa. Non ci può essere un dominatore e un dominato, chi comanda e chi è costretto a subire: le conquiste di civiltà del nostro tempo, anche se subiscono attacchi continui, non possono essere messe in discussione da nessuno.
Stabiliamo una convivenza più pacifica, una integrazione più reale, una collaborazione in cui ognuno possa dare il meglio di se…e saremo più sicuri anche dalle violenze e dagli attentati. L’Italia ancora è stata risparmiata e tutti ci chiediamo il perché: ci auguriamo che lo sia ancora, che non accada anche a noi di dover piangere qualche persona cara. Ma non possiamo affidarci al fatalismo o alla casualità: dobbiamo con responsabilità costruire una fraternità vera che magari metterà in discussione qualche nostro ‘diritto acquisito’, ma ci permetterà di garantire un futuro diverso, migliore ai nostri figli e forse anche  ai nostri nipoti. (*Vescovo Delegato Migrantes della Conferenza Episcopale del Lazio)