Milano – Che l’accoglienza dei migranti potesse diventare da problema del presente a risorsa per il futuro del territorio, i piccoli comuni di montagna l’hanno capito da tempo e si sono mossi di conseguenza. Spopolamento, invecchiamento della popolazione, cessazione dei servizi e dissesto idrogeologico sono (alcuni) dei problemi con cui quotidianamente queste comunità sono chiamate a misurarsi e che l’arrivo dei migranti ha portato le amministrazioni locali a considerare sotto una luce diversa. E non si tratta di semplici suggestioni, ma di una pratica, anzi di sette “buone pratiche”, analizzate e raccontate dalla ricerca “Montanari per forza”, che sarà presentata questa mattina a Torino nel corso del convegno “Il mondo in paese”, promosso da Compagnia di San Paolo, Regione Piemonte, Città metropolitana di Torino e associazione Dislivelli, che ha condotto lo studio con Maurizio Dematteis e Alberto Di Gioia. Con oltre 14mila migranti ospitati, pari all’8% del totale nazionale, il Piemonte è la quarta regione italiana per accoglienza. Coinvolte non sono soltanto le grandi città, ma anche e, forse, soprattutto, i piccoli comuni di montagna. A livello nazionale, infatti, circa il 30% dei migranti arrivati in Italia, è ospitato in aree montane. Realtà dove l’arrivo di piccoli gruppi di migranti, all’interno del progetto di accoglienza diffusa, ha fatto davvero la differenza.
Come ad Ormea, comune di 1.650 abitanti nell’Alta valle del Tanaro, in provincia di Cuneo, dove l’arrivo di 35 migranti, ormai più di un anno fa aveva scatenato proteste che il sindaco, Giorgio Ferraris, ha placato assumendo in proprio la gestione dei nuovi arrivati. Con 84mila euro ha ristrutturato la vecchia casa di riposo, non più utilizzata, che ora ospita i migranti e con i contributi per la loro gestione, circa 18mila euro al mese, paga lo stipendio alla decina di giovani, tutti di Ormea, che hanno trovato lavoro grazie al progetto di accoglienza.
Più complesso il programma di micro assistenza diffusa in Valsusa, che coinvolge 20 Comuni, firmatari di un protocollo con la Prefettura per il coordinamento degli interventi, che prevede l’accoglienza in piccoli numeri in appartamenti reperiti sul mercato privato. «Si tratta di un modello di governance di un’intera valle – spiegano gli autori della ricerca – esportabile in altri contesti montani, caratterizzati da una certa coesione territoriale, che permette di valutare la capacità di assorbimento sociale delle singole realtà coinvolte». Un «volano di sviluppo» è diventato anche il progetto di accoglienza portato avanti a Pettinengo (Biella) dall’associazione Pacefuturo, che è riuscita a tenere insieme le esigenze degli immigrati con quelle dei locali in difficoltà. «Partendo dalla condivisione degli obiettivi con le altre realtà locali impegnate nella solidarietà (dal Comune alla Parrocchia, dai servizi sociali agli imprenditori locali attenti ai problemi sociali) – racconta la ricerca di Dislivelli – l’associazione porta avanti progetti che coinvolgono fasce deboli e non, stranieri e autoctoni, pubblico e privato».
Centrale in tutti e sette i progetti è la funzione del lavoro (volontario o, in alcuni casi, anche retribuito) svolto dai migranti. Che, per esempio, si prendono cura dei boschi o effettuano la manutenzione di sentieri e muretti a secco. «L’obiettivo è duplice – concludono i ricercatori – dimostrare alla popolazione locale che gli ospiti non rimangono inoperosi e quindi, in qualche modo, restituiscono qualcosa al territorio a fronte dell’accoglienza. Inoltre, lavorando impegnano le giornate e possono venire in contatto con la realtà locale in cui vivono». (Paolo Ferrario – Avvenire)