“I migrati”: ecco cosa vuol dire buona tv

Roma – Ogni tanto ci si interroga su cosa sia la televisione oggi. Si dice che non è più una, che è diversificata, per tanti motivi: per l’offerta, per il modo e i tempi di vederla… Ma poi, di fronte a certi programmi, ti accorgi che il segreto è uno solo: raccontare storie, proporre volti, persone e situazioni. Allora diventa esempio di buona tv quella fatta da quattro disabili mentali che sono andati in giro per alcuni paesi del Centro Sud a cercare di capire come vivono e vengono accolti i profughi arrivati in Italia.

Un viaggio partito da una spiaggia perché Benito, Barbara, Gianluca e Giovanni (questi i nomi dei quattro) fanno parte di un’associazione di volontariato, la “Comunità XXIV luglio – handicappati e non”, che porta nel nome la data della loro prima vacanza al mare.

Ed è proprio dal mare che iniziano a raccontare le storie di chi dal mare arriva nel nostro Paese in attesa di sapere cosa sarà della sua vita. Disabilità e migrazione dunque si incontrano e confrontano attraverso una prospettiva diretta, senza filtri, semplice e piena di scoperte nel documentario di Francesco Paolucci, I migrati, andato in onda su Rai 2 sabato scorso intorno a mezzanotte all’interno di Tg2 Dossier e domenica alle 19.05 su Tv2000. E questa è un’ulteriore notizia: forse per la prima volta lo stesso programma va in onda sulla tv pubblica e su una rete privata nell’arco di nemmeno ventiquattr’ore. Segno di un meritato interesse per un prodotto che avvicina autentiche diversità e le mette in ascolto reciproco, grazie a un dialogo istintivo e graduale. I quattro improvvisati giornalisti, nella loro semplicità, riescono a porre quesiti interessanti, dando una lezione ai tanti giornalisti che spesso fanno domande arzigogolate convinti che siano più intelligenti delle risposte. «C’avete il vostro Dio come ce l’abbiamo noi qua?», domanda uno dei quattro. «Siamo tutti uguali, cristiani e musulmani», risponde uno dei profughi. «Sono figli, siamo mamme anche noi», afferma una delle anziane donne di paese. I migrati finiscono così per raccontare un’Italia dei piccoli borghi lontana dalla paura e dalla rabbia manifestata quando si parla di immigrazione. Se ben gestita  l’accoglienza può diventare uno strumento di reciproco arricchimento culturale. Del resto, come dice Benito, «c’hanno la voglia di vivere come noi, anche se hanno la faccia africana».(Andrea Fagioli)