Roma – Quando consideriamo il fenomeno migratorio, le difficoltà della prima accoglienza per soccorrere i rifugiati dominano il dibattito pubblico. Le varie opinioni emerse vengono utilizzate per immaginare, sostenere e progettare interventi più o meno ospitali e inclusivi, dalle diverse forze sociali e politiche. Su quei parametri, dopo, si gettano le basi e si studiano valutazioni per pianificare altre strategie da adottare per affrontare il fenomeno.
Così si lasciano in secondo piano, invece, le questioni aperte da una presenza strutturale nel nostro Paese dei cittadini di origine straniera. Eppure parliamo di oltre 5 milioni di persone tra cui quasi 800mila bambini e ragazzi, che frequentano regolarmente le scuole di ogni ordine e grado, e quasi 2 milioni e 500mila lavoratori e lavoratrici occupati che contribuiscono alla crescita della produzione nel nostro Paese, finanziando anche le casse dello Stato. Come rileva la Fondazione Leone Moressa il saldo tra le uscite, per le spese di welfare dedicate agli immigrati, e le entrate, per le tasse che da essi vengono prelevate, è positivo: nel 2014 oscillava, ad esempio, all’interno di un range tra gli 1,8 miliardi e i 2,2 miliardi di euro.
Quando, dunque, ci si confronta sul fenomeno migratorio, è opportuno considerare una realtà sociale in movimento che ha forti potenzialità a partire dagli ambiti demografici ed economici. Le politiche di integrazione sembrano incomplete, se da una parte, infatti, una serie di diritti sociali vengono garantiti e osserviamo a livello locale esempi positivi per favorire l’inclusione come le iniziative interculturali nelle scuole, dall’altra parte questi cittadini rimangono sospesi a metà, rispetto a una piena integrazione. Le motivazioni poi non sono chiare e spesso si fermano dentro ripetizioni di pregiudizi infondati. È di questi giorni lo stop del Senato alla legge per la concessione della cittadinanza per la seconde generazioni, che avrebbe introdotto una forma di ius soli nel nostro ordinamento, mediata da uno ius culturae: i figli di immigrati sarebbero potuti diventare italiani se nati o residenti per un determinato periodo di tempo in Italia e dopo aver terminato almeno un ciclo scolastico di studi.
Invece di investire su un potenziale, rimaniamo da tempo in una situazione intermedia, da una parte queste persone vivono e si radicano nel nostro Paese, dall’altra tendiamo a non favorire un’integrazione completa. Così facendo rischiamo di perdere un’occasione per rinnovare il sistema-Paese, oltre che privare alcune persone di opportunità importanti per il loro futuro. Se non si valorizzano le persone si finisce per disperdere le loro energie e alimentare il fenomeno di brain waste (spreco di cervelli) che danneggia non solo i singoli ma anche le società in cui vivono. (Andrea Casavecchia – Sir)