Milano – Altri cinque. E un neonato tra loro. Sono morti durante la traversata per raggiungere l’isola di Lesbo, in Grecia. In due mancano all’appello. L’imbarcazione che trasportava migranti afghani e iraniani è affondata a 500 metri dalle coste della Turchia, nella località di Kayalaralti nella provincia di Canakkale, nel nord-ovest. La guardia costiera turca ha portato in salvo nove persone, due sono disperse. L’annunciata chiusura della rotta balcanica non sta avendo alcun effetto sul flusso di migranti. Pur di lasciare le zone di guerra e tentare la via europea i profughi sono pronti a qualsiasi rischio. E se i percorsi venissero dirottati verso l’Albania, a migliaia sono già pronti a cambiare strada pur di non fermarsi in Grecia.
Ieri la Macedonia ha chiuso il confine dopo che Slovenia, Croazia e Serbia avevano annunciato nuove restrizioni all’ingresso dei profughi, con il rischio che questi restassero intrappolati sul suolo macedone, dove a migliaia sono già fermi sul confine con la Serbia. Secondo gli ultimi dati diffusi da Medici senza frontiere, le persone complessivamente rimaste dietro alle barriere di confine sarebbero quasi 50mila. Il timore è che l’esodo si sposti nuovamente verso l’Italia.
«Grande preoccupazione» per l’atteggiamento dell’Unione europea è stata espressa da Carlotta Sami, portavoce dell’Acnur Italia. Timori per decisioni «che sono evidentemente in contrasto con il diritto internazionale e comunitario». A cominciare dai «respingimenti collettivi presso un Paese terzo (la Turchia, ndr) e con minori garanzie rispetto a quanto non avvenga già in Europa», osserva Sami.
Le bozze di accordi sui respingimenti di massa suscitano altre domande. «Il documento uscito dal summit europeo solleva diversi dubbi. Si dice che occorre restituire alla Turchia gli irregolari – commenta Cristopher Hein, portavoce del Consiglio italiano rifugiati – ma non si dice chi sarebbero gli irregolari, chi esaminerebbe la loro posizione, quale sarebbe la procedura da svolgere, chi se ne occuperebbe e dove». Insomma, oltre che sulla effettiva realizzabilità dei respingimenti, «ci sono dubbi anche sulla legalità di una simile proposta, visto che il protocollo aggiuntivo dell’Ue riguardante le Convenzioni sui diritti umani, vieta esplicitamente proprio i respingimenti di massa».
A questo punto è un flusso Albania- Puglia quello che si teme maggiormente. Oggi in prefettura a Lecce si terrà una riunione dei sindaci della provincia. L’obiettivo è fare il punto sulle strutture disponibili per l’accoglienza per non farsi cogliere impreparati. «Non abbiamo evidenza di prossimi sbarchi e di flussi provenienti dalla Turchia», ha ripetuto il ministro dell’Interno Angelino Alfano, tentando di rassicurare. Che una ripresa della rotta nel Canale di Otranto sia un rischio da non sottovalutare, lo conferma però la visita che proprio Alfano svolgerà a Tirana nei prossimi giorni per incontrare il suo omologo albanese Saimir Tahiri, il quale lo scorso 4 febbraio era a Roma. I due ministri hanno stabilito una rafforzata collaborazione tra le forze di polizia dei due Paesi, concordando l’invio di funzionari della polizia italiana a Tirana. Quello che manca alle proposte europee è un serio dibattito sui corridoi umanitari. L’Italia, con l’iniziativa di Sant’Egidio e della Tavola Valdese, ha dimostrato che è possibile gestire l’afflusso in sicurezza e sottraendo i profughi ai trafficanti. «Ci sono molti modi per poterlo fare, a cominciare dal ricongiungimento familiare e alla mobilità a fini occupazionali», ribadisce Carlotta Sami. Perciò a Ginevra, il prossimo 30 marzo, l’Onu ha convocato una conferenza mondiale per chiedere a governi e privati di cooperare ai progetti per i canali umanitari. (Nello Scavo – Avvenire)