Zurigo – Dopo il voto, “svolta a destra” è il giudizio che viene espresso, quasi unanimemente nella Svizzera romanda, mentre in quella tedesca, ivi compresi i media più autorevoli come ad esempio l’NZZ (Neue Zürcher Zeitung), si parla senza mezzi termini di “ritorno alla normalità”. Tutta la campagna elettorale è stata concentrata sulla questione migrazione, con sfumature e accenti addirittura più marcati rispetto agli anni Settanta (periodo Schwarzenbach). D’altronde, il risultato dell’Udc è stato commentato e giustificato, dal presidente Toni Brunner, come l’espressione diretta di un popolo stufo degli arrivi, dei profughi, di quanti bussano alla porta elvetica. Ciò è accaduto nonostante la Svizzera non rientri affatto, e forse non ci rientrerà mai, nelle traiettorie di quest’ultima ondata di disperati. Tuttavia, l’accento è stato posto esclusivamente sulla migrazione, tanto che alla domanda su quali siano le altre questioni prioritarie che Berna dovrà affrontare, ci si limita ad argomentazioni tentennanti sul dibattito energetico. Dal risultato di queste elezioni, al di là delle performance positive o meno dei singoli partiti e degli scenari futuri, emerge per l’ennesima volta come la paura dell’invasione sia ancora l’arma più potente dei populismi. Che la Svizzera subisca pressioni migratorie da decenni, o meglio da più di un secolo, è un fatto storico accertato. Che il fenomeno migratorio nella Confederazione incida in termini percentuali in maniera notevole è un altro dato riconosciuto. Che questo sia ben superiore rispetto alle risibili cifre che riguardano, ad esempio, l’Italia, è altresì un fatto. Come è un fatto accertato che, da più di trent’anni, i partiti antistranieri abbiano scalato i vertici delle istituzioni elvetiche. D’altronde gli stessi partiti si istituzionalizzano in seguito alla stagione referendaria degli anni Settanta, che aveva come bersaglio gli stranieri, in maggioranza italiani, all’epoca e in gran parte ancora oggi. Su tutti, è indicativo il risultato della Lega Ticinese a Chiasso, comune medio piccolo ma emblema di cosa significhino le difficoltà quotidiane, da un lato generate dagli oltre 60-70mila frontalieri quotidiani e, dall’altro, dagli extracomunitari e non che cercano una soluzione alla proprio miseria. Il caso di Chiasso è significativo non per i fatti di cronaca di questi giorni, bensì quale modello interpretativo di un disagio che accomuna tutti, da più e diversi punti di vista, e che non può e non troverà alcuna soluzione nel recente risultato elettorale. Il sistema produttivo della piccola cittadina è pressoché sparito. La convenienza economica d’avamposto di frontiera, da oltre vent’anni, si è ribaltata a favore dell’Italia, dove per gli svizzeri risulta più conveniente spendere quotidianamente i soldi. Parimenti, sono più di vent’anni che il cantone soffre di forte distacco nei confronti delle politiche federali. In più, chi oggi si lamenta maggiormente sono gli italiani, trasferitisi nell’immediato secondo dopoguerra in questi luoghi e che hanno contribuito in maniera determinante, sia economicamente che socialmente, al loro sviluppo e alla loro crescita. Ovviamente quest’ultima affermazione è estendibile ad ogni latitudine della Confederazione, senza alcuna paura che possa essere smentita. D’altronde oggi i cittadini italiani sono percepiti quale parte integrante di questo paese. Neppure Magdalena Martullo-Blocher, la nuova Le Pen svizzera, figlia dello storico leader ultranazionalista Blocher, appena eletta, può mettere in discussione questa affermazione: è sposata con un italiano, Roberto Martullo. Ma questi sono dettagli di colore. Ciò che invece preoccupa è che proprio in un momento così delicato per le sorti dell’Europa, che inevitabilmente si trova a fare i conti con la propria storia, prevalgano la chiusura e la paura. I muri non hanno mai prodotto né crescita né sviluppo e questo dovrebbe essere già abbastanza chiaro dopo quanto successo in seguito al referendum del 9 febbraio 2014. La Svizzera e tutto quello che essa oggi rappresenta, i risultati raggiunti a partire dal secondo dopoguerra, sono figli di centinaia di migliaia di migranti che hanno consentito questi risultati. Le tante umanità che per decenni, mentre contribuivano al benessere del paese, dovettero sottostare a momenti non dissimili da quelli quotidiani dovrebbero assumere quale dovere morale e civile – e perché no pedagogico – la responsabilità di raccontare le proprie esperienze, affinché, alla debolezza ed al consociativismo della politica elvetica, si posso sopperire con una verità storica. Questa, se acquisita e fatta propria, con ogni probabilità modificherebbe il sentire comune di tanti cittadini che, travolti dalle paure e dalla spregiudicatezza di chi le sfrutta, decidono di optare per soluzioni di chiusura nei momenti meno appropriati. Come mero esperimento da manuale, sarebbe il caso di chiedere a quanti cavalcano paure per scalare posizioni di potere di chiudere per sole 48-72 ore le frontiere della Svizzera, per poi farci raccontare i danni provocati da questa decisione, in primis dal punto di vista prettamente economico. Probabilmente a queste domande costoro non saprebbero rispondere. (don Carlo De Stasio – Coordinatore Missioni Cattoliche di Lingua Italiana in Svizzera)