Roma – E’ il più grande campo profughi d’Europa. Il più affollato, il meglio organizzato, il più desiderato dai sindaci, che fanno a gara per averne un pezzo. Se i Cara e i Cie non li vuole nessuno, per un progetto Sprar in Italia si fanno voti. Perché grazie al “Sistema di protezione e accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo” è stato possibile dare un tetto e un futuro a decine di migliaia di migranti, rivitalizzando borghi destinati allo spopolamento, oppure incoraggiando l’integrazione prevenendo tensioni. Ne stanno beneficiando 18.765 persone, e nel giro di qualche settimana si potrebbe arrivare a 22mila. I progetti attivi sono 456 in tutta la Penisola, 415 coinvolgono direttamente gli enti locali: 375 Comuni, 30 Province e 10 unioni di Comuni. In altri termini, tenendo conto di quanti lasciano poi il sistema di accoglienza per recarsi in altri Paesi o perché in grado di mantenersi da soli, la rete Sprar riesce ad occuparsi di almeno 30mila persone all’anno. Nei giorni scorsi il segretario della Lega Nord Matteo Salvini aveva assicurato che nessun sindaco lumbard avrebbe dato ospitalità ai profughi salvati dai mezzi navali dell’operazione Mare Nostrum. Una voce non troppo ascoltata, se poi la Lombardia è al primo posto tra le regioni del Nord, con mille posti letto disponibili ed altri in corso di attivazione. La suddivisione per regioni vede al vertice il Lazio con 4.277 posti, seguita da quattro regioni del Sud: Sicilia (4.084), Puglia (1823), Calabria (1524), Campania (1062). Al Nord la Lombardia precede Piemonte (841) ed Emilia Romagna (690). Seguono le altre con una meritoria disponibilità dell’Abruzzo, che nonostante i postumi del terremoto dell’Aquila riesce a dare accoglienza a 242 migranti. Ultima la Sardegna, con 60 posti assegnati e 24 aggiuntivi. La rete Sprar è un modello che dall’Europa cominciano a studiare. Solo in Olanda esiste qualcosa di analogo. Niente campi chiusi, né filo spinato, né risse tra gruppi etnici o musi lunghi dei residenti. Grazie a microprogetti è possibile ripopolare aree pressoché disabitate, soprattutto si può restituire una prospettiva a chi, dopo essere sopravvissuto ai signori della guerra e ai trafficanti di uomini, in fondo chiedeva solo di poter vivere. La burocrazia è un’ottima alleata dell’incertezza. Così accade che i dannati degli affollati Cara si lamentino per le lungaggini delle commissioni incaricate di esaminare la richiesta di protezione internazionale, ma poi non ne vogliano sapere di lasciare i campi per accedere a un progetto locale. Non è la sindrome di Stoccolma. «La maggioranza dei migranti – spiega un portavoce del Servizio Centrale Sprar – teme che trasferirsi in un’altra regione possa far ripartire daccapo il processo di esame della domanda d’asilo, prolungando ancora di più i tempi d’attesa». Ma nella realtà accade il contrario, perché lasciare la Sicilia per il Molise o il Veneto, «consente agli immigrati di accorciare di molto l’iter, perché lì le commissioni sono meno ingolfate». E poi, ogni profugo che lascia un Cara si traduce, per l’ente gestore, nella perdita di una fonte di reddito. Nei giorni scorsi è stato raggiunto l’accordo tra enti locali e governo per il potenziamento del piano per la gestione dei profughi, con uno stanziamento di 370milioni per il 2014, di cui 70 per i minori non accompagnati. Il progetto prevede, dopo lo sbarco sulla terra ferma, l’assegnazione dei sopravvissuti entro 48 ore ai Comuni aderenti allo Sprar. «Questo sistema – ha detto il presidente dell’Anci, Piero Fassino – potrà essere ulteriormente esteso a 35mila persone, ma per questo ci vorranno più risorse». (N. Scavo – Avvenire)