Italiani all’estero: la nostra festa con i santi

Londra – Anche quest’anno i santi sono scesi in piazza. Capita puntualmente ogni anno, già da più di quarant’anni. È il miracolo che succede normalmente all’estero, a Bedford, in terra anglicana, nell’ultima domenica di agosto.

 
Con i santi scendono anche tutti gli emigranti, venuti dal Sud Italia negli anni ‘50, ormai qui ben stanziati come un tempo le truppe romane. Appena sbarcati, si mettevano di buona lena a lavorare nelle cinque fabbriche di mattoni della zona. A cottimo, anche dodici ore al giorno. La terra era ottima, argillosa. Ideale, per servire con milioni di mattoni alla ricostruzione di Londra, devastata dalle incursioni tedesche. I santi erano, poi, arrivati subito dopo. A opera iniziata. Così, con i loro paramenti da festa si era presentati uno a uno dai paesi di origine dei nostri. Primo, sant’Antonio. Partito da Montefalcione, nell’avellinese, e seguito a ruota da santa Lucia, dalla terra siciliana, poi san Lorenzo, san Cipriano, Padre Pio….
Così adesso, ogni anno, tutti insieme, – uomini e santi – si va a visitare tra canti e preghiere il centro di Bedford, paese che ha accolto entrambi. La città, centomila abitanti, a un’ora da Londra, si ferma per contemplare il pellegrinaggio degli italiani. Ognuno cammina dietro al suo santo patrono, e non gli sembra più di essere in terra straniera, ma a casa sua, tra i suoi. È quasi un conquista simbolica del territorio. Forse, con una segreta convinzione: che il proprio santo sia più miracoloso degli altri. C’è aria d’Italia in questi momenti, bella e familiare. Come una rivincita sul mondo anglosassone, che, nonostante tutto, scorre già da tempo nelle loro vene.
Spesso non manca l’imprevisto: il tempo inglese. L’anno scorso, la processione attendeva alle porte della chiesa, in agguato, per sbucare allo scoperto tra un acquazzone e un altro. Uno slalom memorabile. L’anno prima, invece, tranquillo e devoto l’inizio, a lento passo di danza, ma poi, i santi stessi cominciavano a mettersi al trotto… sembrava rovesciarsi il cielo addosso! Tuttavia, rimane sempre una festa unica, unforgettable.
La “festa dei santi” è un richiamo al cammino di fede di questi emigranti. Per gente che ha dovuto tagliare tanti legami con la propria terra, con la propria lingua, le abitudini, i ritmi e i volti familiari, i santi sono dei veri compagni di viaggio. Anche dei buoni samaritani, curando le loro ferite e le tante amarezze. Degli intercessori per le cose impossibili. Spesso, per loro, l’ultima sponda.
Così, camminando e pregando, la gente dal nostro Sud – che parla un italiano imbastardito di inglese – pensa ai miracoli quotidiani vissuti. “I santi sono pezzi di legno dorato!” tuonava in chiesa padre Mario, “ma quelli veri sono nel vostro cuore” aggiungeva, consolante. Le donne ogni tanto, camminando, si toccavano il petto quasi per stringerselo stretto, il loro santo.
Lo stupore è veder sfilare felicemente una dozzina di santi protettori dei più diversi paesi italiani, portati senza gelosie o rivalità. “Anche questo fa l’unità d’Italia!” commenta il commendatore Peppino Ciampa, sempre sensibile al lato politico delle cose. Qualcuno poi ricorda che agli inizi, alle prime processioni, gli italiani che partecipavano erano legione. Un’impressionante e commossa massa di popolo si muoveva, mentre in aria tuonavano i botti come laggiù in terra nostrana. Ora, tantissimi riposano al cimitero. Distesi, in pace, a processione finita, sotto uno stupendo tappeto di erba verde-smeraldo. “Sono arrivato all’ultima stazione!” senti ancora, camminando, sussurrare da qualcuno, e capisci subito dove presto incontrarlo…
Ma la processione non ha perso di attualità. Alle porte delle case, davanti a deliziosi, minuscoli gardens, al passaggio dei nostri santi si assiepano indiani, pakistani, inglesi, polacchi,… tutti curiosi di una processione dai colori italiani, incantati a scattarne una foto. Si passa anche davanti alla moschea. Quest’anno, l’imam era lì, ritto e pensoso, a godersi la scena dei nostri ”marabout,”come chiamano gli uomini dallo spirito di Dio. Qui è naturale rispettare la religiosità degli altri, quella che sa dare forza e coraggio alla propria vita di migranti. In fondo, tra culture e fedi diverse si è tutti sullo stesso cammino di umanità. Ancora una volta, emigrare è qui una lezione di vita e di rispetto dell’altro.
Alla fine, tavole di birra, di dolci, di infiniti manicaretti attendono i nostri uomini e delle nicchie profumate, invece, i nostri santi. A tavola o in chiesa, ognuno è felice di ritrovare il suo posto. (R.Zilio)