Oltre le parole

”Ticket”: in scena una tragedia del nostro tempo

Roma – “Il corpo è più forte delle parole”. Ne è convinto Jack Souvant, il regista francese che con la sua compagnia “Collectif bonheur intérieur brut” dal 2009 porta in scena “Ticket”, spettacolo in cui lo spettatore è chiamato a vivere l’esperienza della clandestinità. Quell’esperienza vissuta ogni anno da migliaia di persone che tentano di attraversare la Manica per raggiungere l’Inghilterra, nascosti nei camion, nei container, in silenzio, al buio. La prima rappresentazione italiana di “Ticket” è andata in scena il 10 luglio nell’ex ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana (Tn), ospite del festival “Pergine spettacolo aperto”. All’inizio sembra un gioco. Un uomo arriva e ci chiede di seguirlo: lui può darci un biglietto per il Paradiso. Un biglietto di sola andata. Si fa nervoso, concitato, brusco. Parla francese, inglese, non lo capiamo. Si prende i nostri documenti e ci spinge dentro un camion. D’improvviso non è più un gioco. Il camion è piccolo e siamo in tanti. È buio. C’è ancora qualcuno che ride, ma su tutti prevale un sentimento di attesa. C’è rumore fuori, gente che parla, urla, non sappiamo cosa dicono. Restiamo in silenzio, cerchiamo di capire. Aspettiamo. Il camion si accende, parte. Siamo in attesa. Non sappiamo chi è vicino a noi, ne sentiamo solo il respiro. Tornano le voci, stavolta dall’alto. E dal soffitto si apre una luce: è una botola che scaraventa giù due corpi. Sono due uomini, due ragazzi. Oggi è il loro giorno fortunato: stanno per imbarcarsi a Calais per raggiungere l’Inghilterra. Lì potranno lavorare, aprire un negozio. Pochi chilometri ancora e lasceranno la Francia. La direzione è quella giusta. Ce l’hanno fatta: sono riusciti a infiltrarsi in questo camion, nessuno li ha visti, nessuno li ha fermati. Sono clandestini. “Spesso la televisione mostra immagini di barconi di migranti, perché spettacolari, fotogeniche. A noi interessa denunciare le condizioni inaccettabili di chi viaggia sui camion per attraversare la frontiera, pagando con la vita il desiderio di spostarsi per avere una vita migliore. Senza averne il diritto”. Così Jack Souvant, al termine dello spettacolo, racconta la storia della performance a un pubblico diventato protagonista. “Tutto è nato nel 2008 – spiega il regista – quando abbiamo intervistato alcuni clandestini a Calais, a Patrasso, che cercavano di varcare la frontiera nascondendosi nei camion. Abbiamo posto loro domande molto semplici: cosa si porta durante il viaggio, cosa si mangia, cosa si pensa. La risposta che sempre risuonava era che non si pensa a niente, perché l’unico pensiero è arrivare”. Dalla raccolta delle testimonianze la compagnia ha costruito lo spettacolo, con l’invito a “prendere le distanze dalla bulimia di informazioni e di immagini” proposta dai media e a “provare dall’interno” la condizione di clandestinità. “Ricordo la testimonianza di un uomo iraniano: mi disse che durante la traversata il cuore gli batteva così forte che aveva paura si sentisse dall’esterno. Tutte le storie di clandestinità – spiega ancora Souvant – raccontano delle reazioni dell’organismo, del corpo: nel camion, al buio, con 150, 200 persone che non si conoscono, ogni senso è amplificato. È questa condizione che abbiamo voluto riproporre, affinché il nostro corpo ci aiuti a superare il concetto “penso, poi dimentico”. Un’esperienza “di frontiera” quella vissuta dal pubblico, al confine tra realtà e rappresentazione. Nel finale la paura prende il sopravvento e il gruppo, compatto e alleato durante il viaggio, esplode alla prima sirena della polizia. Ora, fuori, ognuno conta per sé. (SIR)