Dal Togo a Cosenza: la storia di Ibrahim, giovane africano fuggito dal proprio Paese

Cosenza – “Sono scappato dal mio Paese perché lì facevo parte del movimento che si opponeva al regime in carica. Dopo la morte del presidente, il capo del Parlamento si rifiutò di indire delle libere elezioni e chi si oppose, fu arrestato. La mia vita, così come quella di molti altri compagni, era in pericolo. Anch’io come molti di loro, dopo esser stato preso a botte dalla polizia, sono finito in prigione”. È Ibrahim a parlare. Ha solo 25 anni e vive a Cosenza. Da 6 anni è in attesa che gli venga riconosciuto lo status di rifugiato politico. La sua vicenda inizia da molto lontano. Dietro le sue parole si nasconde tanta sofferenza e rabbia. All’inizio pensi che la sua storia possa somigliare ad una delle tante che raccontano di diritti negati, di violenza e di “aguzzini” pronti a rubarti le certezze e la speranza di un futuro. Pensi che la sua sia una vicenda comune a quella di tanti uomini e donne “senza patria”, costretti ad una “fuga forzata” alla ricerca di un po’ di dignità e di quel “posto” nel mondo al quale tutti, allo stesso modo, dovremmo avere diritto, perché, nessuno, in fondo sceglie di essere rifugiato.

Ma poi, andando avanti, ascoltando il suo racconto, capisci che ogni storia porta con sé vicende umane, emozioni, sentimenti e affetti diversi, perché ogni storia, così come ogni sofferenza è differente. E, in fondo, anche quella di Ibrahim lo è.
Dietro alle sue parole si apre un mondo che racconta di libertà negate, di persecuzione e di paura, ma anche di tanto coraggio, di tanta speranza e di dignità.
La sua storia comincia in un lontano Paese nel cuore del Continente nero, Il Togo. Un piccolo lembo di terra della lontana Africa occidentale, dal destino atroce: terra di schiavi in passato e terra di rifugiati oggi. Il Paese, dopo esser stato per quasi 30 anni sotto un regime militare, è dal 2005 sotto una nuova dittatura in seguito ad un colpo di stato.
“Sono stato arrestato – dice Ibrahim – solo perché ho manifestato la mia opinione. Sono riuscito a fuggire dalla prigione nella quale ero stato rinchiuso, grazie all’aiuto di un amico”.
Il giovane togolese racconta la sua vicenda con pathos. Racconta della sua terra e della sua gente. Ricorda la sua famiglia e la vita che faceva lì, quando era ancora uno studente e aveva la passione per il calcio. Poi, quando parla dei giorni della prigionia e della fuga verso l’Italia cambia tono. Diventa cupo. Percepisci nella sua rabbia cosa significa vedere calpestata la libertà e gli affetti più cari.
“Attraverso il confine con il Ghana – dice – sono riuscito a imbarcarmi su un aereo. Non sapevo quale fosse la mia destinazione”.
Nelle sue parole riesci a sentire la sofferenza di chi non ha alle spalle semplicemente una storia, ma la porta ormai dentro di sé come un tatuaggio sulla pelle. “Mi dissero – aggiunge – che quel volo poteva essere la mia unica via di fuga per salvarmi la vita”. È il 2008 e Ibrahim sbarca all’aeroporto di Milano Malpensa.
Ha meno di vent’anni. “Arrivato in Italia – dice- ho subito chiesto asilo politico. Fui mandato a Varese, e , poi, in seguito in Calabria. Vivere nella condizione di richiedente asilo politico non è facile. Sono tante le difficoltà che incontri. In Italia purtroppo non ci sono dei programmi di inserimento che prevedano dei corsi di formazione o che ti aiutino a trovare un lavoro e un alloggio. Fino a qualche mese fa lavoravo come operaio in una ditta, ma ora sono stato licenziato a causa della crisi. E ora – aggiunge – mi arrangio come posso. Faccio dei lavoretti saltuari per guadagnarmi
da vivere”.
Ibrahim parla un buon italiano, ma vivere in una terra straniera, in una nazione che non è la tua, non è facile, soprattutto se sei da solo. La sua famiglia che non vede da anni è ancora lì nel suo Paese. “Mi manca la mia terra. Mi manca mia madre, mio padre, i miei fratelli, i miei amici e quella che era la mia vita. Ma non posso tornare in Togo”. Mentre parla, ti accorgi che in fondo Ibrahim la sua Africa ce l’ha nel cuore.
“Sono arrivato in Italia – racconta- con la speranza di una vita migliore. Non veniamo a rubare il lavoro agli italiani, ma chiediamo solo un po’ di dignità. Anche i vostri nonni – conclude – sono stati costretti a lasciare la propria terra per sopravvivere. Nel corso della storia siamo stati tutti migranti”.
E, in fondo, Ibrahim ha ragione. Se pensiamo al nostro passato chi può dire che non lo è stato? Basta guardare le nostre storie. Se scrutiamo bene nelle nostre vite, in fondo, ci accorgiamo che ognuno di noi ha bisogno della sua “terraferma” sulla quale far approdare la propria speranza e di un porto al quale attraccare il “sogno” di un futuro migliore. Non solo Ibrahim, ma ognuno di noi, in fondo, cerca la sua “America”. (A. Altomare – Parola di Vita)