Villapiana (Cosenza) – “Grazie che mi avete ascoltato, mi avete fatto parlare per un pò. Non parlo con nessuno per ore ed ore”. Così, nell’ora più calda, un venditore ambulante senegalese ha fatto la sua sosta sotto il nostro ombrellone. Vende come tanti roba contraffatta, che dice di aver comprato a Napoli per tirare a campare. Una sosta, una parola tira l’altra, ci vede interessati alla crisi libica che stiamo seguendo sulle pagine dei quotidiani. Chiede qualche informazione. Poi, rotto un po’ il ghiaccio si presenta. Si chiama Bilj, ha ventisette anni, è in Italia da tre. C’è arrivato con il visto turistico, c’è rimasto per trovare lavoro.
“Noi lo sappiamo che siamo un po’ fastidiosi, siamo tanti sulle spiagge, ma dobbiamo mangiare. Voi pensate che a noi fa piacere fare questo lavoro, passare ore sotto il sole?” ci confida ricordando con rammarico le giornate di lavoro che ha potuto fare qua e là per l’Italia.
Si perché Bilj ha girato molto. Ha imparato anche la lingua, ha cominciato come lavapiatti in un ristorante di Roma, poi a Bergamo e poi Torino. “Ma la crisi!” aggiunge anche lui. Anche lui pronuncia quella parola che sembra giustificare tutto, quella parola che lo ha consegnato alla strada, all’esperienza del vu’ cumpra.
Ha lavorato nella piana di Sibari per alcuni mesi, secondo la legge di questo o quel caporale che lo ingaggiava attraverso un amico per settimane, per qualche mese. Dalle olive ai pomodori. “Sapevo che il mio capo prendeva dei soldi, altri li tratteneva il mio amico, anche lui africano, ma quei dodici euro me li facevo bastare”.
Non è arrabbiato, nemmeno se gli parliamo di sfruttamento. “A me andava bene – aggiunge – e riuscivo a mandare anche qualche cosa a casa, in Senegal, perché per la nostra cultura ognuno ha il dovere di sostenere la sua famiglia”.
Guarda il mare, quel mare che ha attraversato per venire qui, e gli leggiamo negli occhi la nostalgia di casa. “Qui non ho nessun amico vero. Giro da una parte all’altra per cercare lavoro ma chi te ne dà”. E’ venuto in Italia con tanti sogni. Lì faceva l’elettrauto ma c’era poco lavoro. Qui nelle officine non gliene danno. Ha lasciato la sua mamma, il suo papà, un fratello ed una sorella.
“Volevo, e lo voglio ancora, girare il mondo, farmi una famiglia, vivere dignitosamente, fare anch’io le vacanze” dice con rammarico , guardando gli ombrelloni del villaggio, ma senza perdere la speranza. Lui aspetta. Ha lasciato il suo numero in tanti posti, a tanti che cercano lavoratori. Altrimenti tornerà nei campi della Piana, rimedierà ancora qualche giornata per la raccolta della frutta. Poi Bilj raccoglie la sua roba, ci guarda, ci ringrazia. Gli offriamo da bere, non vuole nulla perché è tempo di Ramadan. Ci sorride aggiungendo un grazie per avergli fatto spazio più che sotto l’ombrellone nel nostro cuore.
“Noi non vogliamo dare fastidio, vogliamo costruirci un futuro accanto a voi, ma con la speranza di tornare a casa. Però a tanti sulle spiagge e nei villaggi turistici nei quali vendo le mie cianfrusaglie vorrei dire: ignorateci pure, ma non prendeteci in giro. Siamo uomini anche noi”. (E. Gabrieli)