In attesa dell’udienza del 19 ottobre in cui un tribunale si esprimerà sulla sua richiesta di asilo politico
Milano – Lacrime e singhiozzi. Di gioia. Ad aspettare Kate Omoregbe, fuori dal carcere di Castrovillari, ieri c’era sì una macchina della questura di Cosenza. Ma non per portarla via, verso un aereo e verso la sua Nigeria, dove la donna è condannata alla lapidazione. Il piccolo prodigio riuscito a un associazione che opera sul piano locale (il Movimento diritti civili) e al suo presidente (Franco Corbelli, un professore delle superiori che a tempo perso si occupa di cause, all’apparenza, altrettanto perse) è d’aver dato una speranza a questa donna. Che ieri, davanti al penitenziario, con le sue lunghe treccine nere e gli occhi ancora pieni di paura, s’è gettata a terra piangendo per abbracciare i suoi benefattori. E per urlare grazie all’Italia, grazie per aver ascoltato le sue preghiere.
Sembra essere previsto un lieto fine, dunque, per la vicenda della donna nigeriana detenuta nel carcere del Pollino, di cui più volte Avvenire s’è occupato nelle ultime settimane. Ora Kate è stata trasferita a Roma e poi – forse già tra oggi e domani – sarà riportata in Calabria, in una struttura di accoglienza messa a disposizione dalla Regione, dove attenderà l’udienza del 19 ottobre in cui un tribunale si esprimerà sulla sua richiesta di asilo politico. «È una battaglia per i diritti umani, quella che abbiamo vinto noi – ha detto lo stesso Corbelli –, ma per Kate è un sogno che si avvera. Quello della libertà».
E libertà aveva chiesto, Kate, in quella prima lettera scritta dal carcere in cui chiedeva aiuto: libertà «di vivere in un Paese democratico », «di riprendere gli studi e laurearsi», «di costruire una famiglia qui». Una storia drammatica, la sua: la fuga, dieci anni fa, dalla città di Sokoto, dove la famiglia voleva costringerla a convertirsi all’islam dal cattolicesimo e a un matrimonio combinato, e l’ha ripudiata; l’odissea del viaggio in Africa, e poi su, su, fino al Marocco, per poi finire su un barcone, arrivare in Spagna, partire alla volta dell’Italia; infine, nel nostro Paese, dopo aver trovato lavoro e ottenuto il permesso di soggiorno, la sfortuna di scegliere le compagne di stanza sbagliate, invischiate in un giro di droga. Di qui l’arresto e la revoca di quel permesso, che a fine pena sarebbe dovuto coincidere col suo allontanamento dall’Italia.
Per fortuna le cose non sono andate così. Grazie anche alla mobilitazione della direzione del carcere, dell’amministrazione comunale di Castrovillari e della Provincia di Cosenza, tutti in prima linea insieme al Movimento diritti civili per salvare la vita della donna. Sul caso è intervenuto anche l’arcivescovo metropolita di Cosenza- Bisignano, Salvatore Nunnari, che unito agli Uffici Migrantes e Caritas della diocesi ha espresso la sua «preoccupazione per l’incresciosa situazione», si è associato all’appello umanitario per Kate e ha chiesto «l’accoglimento della richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato per evitare alla donna la condanna a morte nel Paese di provenienza».
Anche il Web è mobilitato. La petizione internazionale diretta al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e lanciata sul sito americano Care 2 è stata rilanciata dai social network Facebook e Twitter e ora conta su oltre 8mila firme. Kate ha una nuova famiglia (V. DALOISO – Avvenire)