Roma – Migliaia di giovani professionisti disoccupati sfuggono alla crisi del paese iberico cercando un’occupazione nei territori delle ex colonie, come Brasile e Angola. Il rovesciarsi del flusso migratorio tradizionale insinua il rischio di una “generazione persa”. Un fenomeno noto da tempo anche in Italia.
Ad ascoltare le storie di questi giovani sembra di sentire un antico refrain, ben noto a noi italiani: Natalia Santos ne ha avuto abbastanza: a 29 anni quest’insegnante di Porto non può recriminarsi nulla, avendo tentato di tutto per trovare lavoro in Portogallo. In sei anni ha presentato domanda di assunzione in 362 scuole, non ottenendo in nessun caso più di 9 mesi di lavoro, guadagnando non più di 500 euro al mese.
Natalia ha tentato anche la strada del progetto Erasmus in Polonia: il desiderio di lavorare era più forte dei disagi connessi con l’esperienza. Sperava, in cuor suo, che l’esperienza l’avrebbe aiutata una volta rientrata in Portogallo, ma così non è stato. Ha quindi ottenuto un posto in Irlanda, ma anche lì l’economia è andata in crisi.
Natalia ha tentato l’ultima carta tornando all’Università per formarsi come insegnante di sostegno, ma i recenti tagli nei finanziamenti nel campo dell’educazione hanno ridotto ad un solo insegnante il ruolo di sostegno, di fronte ai quattro o cinque degli anni scorsi.
Da qui la scelta di entrare nella scia di quella “fuga di cervelli”, che anche in Italia conosciamo bene, stufa di aspettare che il suo paese pensi anche ai giovani come lei.
In effetti un laureato su 10 lascia il Portogallo, spingendo molti a riflettere se si possa parlare di una “generazione persa”.
Un dato che ci deve interessare, perché ben il 70% dei giovani che ha lasciato l’Italia dal 2000 ad oggi è laureato. Pochi minimizzano alcuni, ma in realtà si tratta di una vera e propria “truppa” di gioventù che costa allo stato miliardi di euro. Il rapporto annuale stilato dalla Fondazione Migrantes sugli italiani nel mondo parla chiaro: l’Italia non ha mai smesso di emigrare. I cittadini italiani iscritti all’anagrafe dei residenti all’estero sono il 6,7% della popolazione totale residente in Italia e dal 2009 al 2010 sono saliti a 113mila unità in più. Circa 60mila i giovani “under 40” lasciano l’Italia ogni anno e secondo i dati ufficiali dell’Aire, l’emigrazione ha riguardato quasi 317mila giovani, circa 30mila l’anno.
Ma il fenomeno è molto più ampio se si pensa che solo la metà degli emigrati si iscrive all’Aire (anche se l’iscrizione è di per se obbligatoria). Una ricerca del 2010 di Confimpreseitalia ha stimato proprio in 60mila i giovani emigranti, ogni anno. Di questi il 70% ha la laurea, ma nel Belpaese vige un’incapacità del sistema di trovare per loro il giusto spazio e l’equa retribuzione. E quando poi provano a rientrare in Italia con un curriculum internazionale di tutto rispetto si trovano spesso le porte chiuse in faccia.
Tornando al Portogallo si è giunti ad affermare che: «questa è il più grande flusso migratorio dagli anni ’60». Così si è espressa Filipa Pinho coordinatrice tecnica del neo costituito Osservatorio sull’Emigrazione voluto dal governo lusitano.
La signora Pinho ammette che le statistiche della sua agenzia restano indietro sui trend, ma secondo l’Osservatorio, il numero dei Portoghesi registrati ai consolati in Brasile è salito a circa 60,000 unità tra il 2009 e il 2010.
Quando David Bernado, un uomo d’affari portoghese che vive a San Paolo, ha fondato un gruppo su Facebook chiamato “Lavori per stranieri in Brasile”, ha visto 20000 contatti in meno di una giornata: la maggioranza erano portoghesi trai 24 e i 35 anni,metà dei quali donne.
Decisamente amara la conclusione di Natalia, la cui storia è purtroppo comune a tanti altri giovani portoghesi: «Preferisco lasciarmi tutto dietro le spalle – famiglia, amici, la mia cultura – ogni cosa che pagare per una crisi che non ho provocato.» (G. Beltrami)