Cercando un sogno di libertà

La testimonianza di don Caldera

Trento – “I profughi accolti nel campo di Choucha iniziano ad essere snervati delle lunghe attese per ottenere lo status di rifugiato politico”.
Don Giuseppe Caldera, direttore del Centro missionario diocesano di Trento, all’indomani del suo rientro dal più grande dei quattro campi profughi situati nel sud est della Tunisia, a 8 km dal confine con la Libia, non usa mezzi termini. Nella tendopoli allestita dall’esercito tunisino in mezzo al deserto, dall’11 maggio il missionario trentino don Sandro De Pretis vive a fianco dei migranti originari di molti Paesi africani, che lavoravano in Libia prima del conflitto.
Ad accoglierli oltre il confine tanta sabbia, un forte vento, un caldo micidiale durante il giorno e notti molto fredde.
“Da mesi queste persone sono intrappolate in questo campo pensato come una soluzione temporanea e provvisoria – spiega don Caldera –, ma la prospettiva è quella di passare qui un periodo indefinito.
Sono a un punto morto. Le pratiche per farli rientrare nel Paese d’origine oppure per il loro trasferimento nei Paesi che si sono dichiarati disposti ad accoglierli vanno per le lunghe”.
Mentre si invoca un’accelerazione del lavoro delle interviste da parte del personale dell’UNHCR (Alto Commissariato ONU per i Rifugiati) incaricato di sbrigare le operazioni burocratiche, di raccogliere i dati anagrafici per l’espatrio o di trovare altre soluzioni, molti richiedenti asilo, esasperati per la condizione di precarietà, avrebbero già lasciato il campo per ritornare in Libia e da lì imbarcarsi per l’Europa.
La conferma nelle parole di don Caldera: “Parlando con i migranti e con don Sandro De Pretis si percepisce la sfiducia nell’UNHCR, l’insicurezza, la delusione e il desiderio (paradossale!) di tornare sulle coste libiche, pur nella consapevolezza di dover affrontare tante difficoltà e soprattutto con il timore delle possibili aggressioni lungo il cammino”.
Si stima che dall’inizio della rivolta almeno 600 mila profughi abbiano raggiunto la Tunisia, l’Egitto e il Niger fuggendo dal conflitto libico. “Quelli che avevano degli sponsor, Paesi che si sono dichiarati disposi ad accoglierli – dice don Caldera – sono riusciti a partire verso il Canada, la
Svezia, gli Stati Uniti”.
La maggior parte dei profughi è però bloccata nel campo; la loro vita è appesa ad un incartamento burocratico nella speranza di essere ospitati presso quei Paesi, purtroppo ancora troppo pochi, disposti a inserirli nei programmi d’asilo.
Oggi Choucha significa oltre 3 mila 500 africani, provenienti soprattutto da Somalia, Eritrea, Etiopia, Nigeria, Ciad, Sudan ed altri cittadini sub sahariani. Migliaia di persone, un centinaio tra donne e bambini, stipati in una tendopoli in mezzo al deserto.
Sono storie di sofferenza, soprusi e atrocità della guerra quelle raccolte dal direttore del Centro missionario sotto le tende accoglienti. C’è chi da anni soffre persecuzioni nella Libia di Gheddafi. I migranti provenienti dalla Somalia hanno conosciuto per anni l’inferno delle carceri di Kufrah, Tripoli e Bengasi, sono stati sfruttati dai trafficanti, rinchiusi giorni e giorni nei container per attraversare il deserto. Altri ancora possono raccontare di essere scampati al naufragio sulla rotta per Lampedusa.
Al campo viene garantita assistenza sanitaria e psicologica e sono forniti almeno due litri di acqua al giorno – “ma ne servirebbero sette per sopravvivere nel deserto”, osserva don Caldera – e cibo; ma non sempre si mangia tre volte al giorno.
In questa babele africana accanto al personale dell’UNHCR, ai militari tunisini, ai Medici senza Frontiera e ad alcune associazioni di volontariato c’è la presenza di don Sandro De Pretis, unico sacerdote cattolico nel raggio di centinaia di chilometri. Don Sandro passa di tenda in tenda. “È una presenza spirituale, la sua, di accompagnamento e di ascolto costante e paziente dei rifugiati”, spiega don Caldera.
“Incontra persone di differenti nazionalità e di differente credo religioso, uomini e donne costretti ad un confino forzato, senza aver commesso alcun reato”.
Nel campo profughi di Chochua – ama dire don Sandro – sono cadute le barriere delle diversità, le persone sono accomunate da un sogno che parla di ricerca della dignità e dì libertà. E capita di ingannare l’attesa tirando qualche calcio di pallone oppure organizzando una partita a pallavolo.
Mentre arroventate sotto il sole girano a vuoto le giostre dei bambini. (Antonella Carlin – Vita Trentina)