Mirsad e Neurija: il valore della famiglia

Verso l’incontro di domani del Papa con i rom

Messina – Mirsad assieme alla moglie Neurija ci riceve nella camera da letto, è mortificato ma è l’unico spazio che gli appartiene in un appartamento di 3 camere che deve dividere con i genitori e la famiglia del fratello. In tutto 13 persone che dopo lo sgombero sono costrette a fare i turni per andare nell’unico bagno, a tutelare la propria intimità per quello che gli è possibile, a regolare la vita di sette bambini tra gioco e compiti di scuola. Rispetto alla vita del campo quella che rimane immutata è la dignità e la cura della casa, l’odore di pulito e il profumo del pane caldo appena uscito dal forno elettrico. Intanto arrivano anche i ragazzi, tutti nati in Italia, che si siedono sui tappeti e ascoltano interessati il racconto dei loro genitori.

 
Mirsad e Neurija sono arrivati in Italia all’età di dieci anni, con le rispettive famiglie, nel 1991. Vivevano nella città di Titograd (oggi Podgorica) che allora faceva parte della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia e che dal 2006, a seguito della tornata referendaria, è stata proclamata capitale della Repubblica del Montenegro. Nel loro ricordo rimane l’immagine di una città bellissima dove hanno trascorso un’infanzia felice perché non gli mancava nulla. Ci dicono che loro rom, durante la presidenza del Maresciallo Josep Bros Tito, avevano acquisito pari diritti con le altre etnie e venivano tutelati in ogni ambito della vita pubblica. Mentre a partire dal 1987, nel crescendo degli scontri tra serbi e albanesi, vennero sempre più emarginati e fatti oggetto di ogni sorta di discriminazione, fino a contestargli la legittimità delle loro proprietà. In questo clima di intolleranza, alle prime avvisaglie della guerra civile e dei conflitti secessionisti, non rimaneva che la via della fuga.
Le famiglie Beganaj e Ajvazi affrontarono insieme il viaggio e scelsero Messina perché già vi si erano insediati i loro compaesani che li avevano preceduti nella fuga dalle atrocità di una guerra, che alla fine delle ostilità, nel 1999, conterà nel solo Kosovo più di cento massacri e oltre diecimila morti. “Noi se non fosse stato per quella sporca guerra – dice Mirsad – non saremmo mai andati via dal nostro Paese, avevamo una bella casa e vivevamo dignitosamente grazie al lavoro. E per questo i primi tempi abbiamo sofferto a vivere in condizioni in cui non eravamo abituati, prima nella zona falcata del porto e poi nell’area dello ZIR vicino al campo sportivo, dentro alla roulotte senza acqua e luce elettrica”. In entrambi i casi non si trattava di aree attrezzate, ma di situazioni dichiarate “provvisorie” che invece si sono prolungate nel tempo, fino a quando l’amministrazione comunale non ha individuato nella zona di S. Raineri l’area da destinare al campo sosta.
A questo punto ci raggiunge Edie, la madre di Neurija, una donna di 59 anni, che dopo aver perso il marito ha provveduto a crescere i figli senza fargli mancare il necessario; i suoi ricordi si proiettano negli anni in cui al campo vivevano quasi 40 famiglie e oltre 300 persone tra adulti e bambini. “Eppure, – racconta l’anziana donna – erano tempi in cui il sovraffollamento non creava alcun problema, ci rispettavamo e le famiglie facevano festa insieme. Non c’era invidia e gli anziani venivano rispettati così come è previsto nella nostra cultura, nell’insegnamento che è stato tramandato dai nostri padri. Il consiglio degli adulti veniva ascoltato e l’educazione dei figli aveva il primo posto nei compiti dei genitori. Oggi non vedo più tutto questo e per me, legata alle tradizioni, è motivo di tristezza e non capisco, non riesco a dare una spiegazione perché siamo arrivati a questo tipo di situazione”.
Neurija annuisce al racconto della madre, le riconosce con parole affettuose la forza e la dignità di una donna, che tra mille difficoltà, ha saputo mantenere in famiglia i valori portanti della cultura romanè. Il suo sguardo si illumina quando il ricordo si apre sul suo matrimonio: “È stato il giorno più bello della mia vita, quello in cui si è realizzato un sogno e mi ha dato la gioia di avere quattro figli che per me sono tutto il mio tesoro”. Con l’orgoglio di mamma ci dice che i suoi figli, tranne il più piccolo, Leonardo, frequentano le scuole della nostra città e fanno di tutto per finire bene quest’anno scolastico. Mirsad ci spiega che non è stato facile quest’anno per i suoi ragazzi, ai problemi di sempre si sono aggiunte le difficoltà relative allo sgombero e alla nuova sistemazione: “Ogni anno facciamo fatica a comprare i libri, più vanno avanti e più aumentano le spese. E per questo devo dire grazie alla Caritas che non ci fa mancare il suo contributo. Ma ho paura che tutto il disagio che hanno dovuto affrontare per l’allontanamento dal campo lo pagheranno nella riuscita scolastica”.
Il capitolo sgombero viene rivissuto con rabbia e tristezza, e Mirsad racconta che: “Non è andata come ci aspettavamo, se avessimo saputo che questa era la sistemazione che avevano preparato per noi non saremmo mai usciti dal campo. Come possiamo vivere in 13 persone in un appartamento di 120 mq? E noi siamo privilegiati, pensate a quelli che nello stesso spazio vivono in 15 e per giunta non appartengono allo stesso nucleo familiare. Si rischia l’esasperazione per delle situazioni che diventano difficili da gestire”. Come non dargli ragione, tutto poteva e doveva essere preparato e coordinato con più rispetto verso le persone e le parole di Neruija risuonano come appello alle nostre coscienze: “Noi rimpiangiamo il campo, è vero che fuori quando pioveva eravamo nel fango, è vero che di notte giravano i topi, ma ognuno aveva la sua abitazione e una riservatezza che qui è impossibile. I miei figli sono ormai grandi e non è giusto che stiano nella camera da letto con noi”.
Leggiamo nei loro sguardi una rassegnazione e una sfiducia che non credono più alla provvisorietà di questa sistemazione e tantomeno al rispetto dei tempi previsti per la realizzazione delle unità abitative che li dovrebbe vedere protagonisti nella fase dell’autocostruzione.
Prima di chiudere la nostra conversazione chiediamo alla giovane coppia cosa pensa di questo invito che il Papa ha rivolto alla comunità rom del nostro Paese. Cambia nuovamente l’espressione di tutta la famiglia: “L’invito del Papa – dice Mirsad – è la dimostrazione di quanto ci vuole bene, e noi lo vediamo come un esempio per tutti gli italiani. Mi auguro che le parole di Benedetto XVI tocchino il cuore delle persone e che per noi si apra l’opportunità di un futuro migliore”. (S. Tornesi – Ufficio Migrantes Messina)