Isuf: “Il Papa come uno di famiglia”

Verso l’Udienza di Papa Benedetto XVI con Rom, Sinti e Camminanti

Messina – Andare a casa di Isuf è sempre un piacere, dalla stretta di mano al caffè preparato dalla moglie Vera non passano che pochi minuti. La casa curata in ogni particolare e le donne impegnate nella preparazione del pranzo rendono ancora più accogliente e familiare la mia visita. Ci sediamo attorno al grande tavolo della cucina e, seguendo un rituale fuori da ogni retorica, la nostra discussione si apre chiedendo come vanno le cose nelle nostre rispettive famiglie. Il lavoro, la salute e i figli sono gli argomenti più gettonati e se qualcosa non va per il verso giusto si trovano le parole per dare coraggio e fiducia, per superare le difficoltà del momento. E per adesso a preoccuparlo è la salute di Arben, il figlio più grande: “È in ospedale – mi dice – è stato poco bene e stanno facendo tutti gli accertamenti necessari, spero che non sia niente di grave e che presto possa tornare a casa”. Ma a rassicurarlo è la nuora, perché lo ha sentito stamattina e le ha detto di stare meglio, che la cura sta facendo effetto e che i medici pensano di dimetterlo presto.

 
A questo punto spiego a Isuf che la mia visita è legata all’avvenimento che in questi giorni ha messo in “gioiosa confusione” la piccola comunità rom dio Messina: la decisione del Santo Padre, Benedetto XVI, di riceverli in Vaticano. Chiarisco che l’idea è quella di scrivere tre articoli per far conoscere tre realtà che siano rappresentative della loro presenza a Messina: farli parlare per parlare di loro. Non avevo dubbi, non si sottrae alla proposta e rilancia dicendo che: “Se il Papa ci ha fatto un dono così grande, se ha deciso di invitarci a casa sua, anche noi dobbiamo fare la nostra parte. Forse è arrivato il momento che la gente, sull’esempio di una persona così importante, si senta invogliata a guardarci con occhi diversi e magari, conoscendo le nostre storie, si renda conto che non siamo un pericolo per la sicurezza, che non rubiamo i bambini e che abbiamo il solo grande desiderio di guardare avanti e sperare in un futuro migliore. Quel futuro che è stato segnato da una guerra che ci ha portati lontano dal nostro Paese, dai luoghi dove siamo cresciuti, dove con tanti sacrifici i nostri padri si erano guadagnati un posto di rispetto nella società”.
Isuf si riferisce alla guerra che dal 1991 al 1995 fu combattuta nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, in una società gravemente disgregata in cui i nazionalismi e gli odi etnici ebbero la meglio sulla ragione e sulla solidarietà: una guerra di tutti contro tutti, che coinvolse sia le etnie che le fedi religiose. Ma, prima che scoppiasse il conflitto, quando i rom cominciarono a subire le violenze e le sopraffazioni dei serbi e degli albanesi, egli decise di lasciare il Paese. Era il 1989 quando partì da Banjica, oggi cittadina del Kosovo, alla volta dell’Italia con tutta la sua famiglia. Solo il tempo di prendere quanto era possibile portare e poi via verso un posto che per loro rappresentava la fine della paura.
Dopo qualche mese trascorso a Taranto, la famiglia Ferizaj si trasferì a Messina, una roulotte diventò la loro nuova casa e la precarietà il vivere quotidiano. Non era il massimo, per chi scappava dalla violenza, dover fare i conti ogni giorno con il controllo delle forze dell’ordine e la sensazione di rifiuto da parte della città. “Capisco – dice Isuf – che non presentavamo la parte migliore di noi, eppure facevamo di tutto, tenendo conto di quelle condizioni di vita, per tenere puliti i nostri figli e le nostre abitazioni. È vero che uscivamo a chiedere, ma era l’unico modo per sopravvivere. Quello che eravamo al nostro Paese, quello che sapevamo fare non contava più, come se una spugna avesse cancellato una parte della nostra vita, e la rabbia di oggi è quella di non avere avuto allora quella tutela che spetta di diritto a ogni uomo che scappa dalle persecuzioni. Solo adesso a molti di noi, a quelli che nel tempo non hanno avuto la possibilità di regolarizzarsi è stata riconosciuta la protezione umanitaria”.
Il passaggio al campo di S. Raineri, un terreno demaniale attrezzato dal Comune, ha segnato una svolta nella vita della comunità rom di Messina: sono aumentati i nuclei familiari, perché i primi arrivati hanno fatto da richiamo per gli altri parenti e nel periodo di più forte presenza, l’insediamento ha contato oltre 300 abitanti. Prende la parola Vera e ci racconta dell’armonia e della solidarietà che univa così tante persone in un fazzoletto di terra a ridosso del mare: “Si condivideva tutto: la gioia dei bimbi che giocavano tra le roulotte e i prefabbricati, il cibo preparato da noi donne, ma anche la paura delle notti d’inverno in cui il mare piuttosto che il vento minacciavano le nostre abitazioni”. Le chiedo cosa le è mancato di più della vita che era abituata a fare in Kosovo e lei non ha dubbi: “Noi donne oltre che curare la casa e i figli sapevamo fare tante cose che ci insegnavano da piccole e che qui non sono servite a niente. Eppure al Paese era una gara tra di noi a chi sapeva lavorare meglio al telaio, a chi realizzava i ricami più eleganti o le ceste più belle”.
Parlare di quello che è stato il campo significa dare merito a Isuf delle energie spese in tutti questi anni, delle tante battaglie portate avanti in nome di un riscatto sociale e di una nuova cittadinanza. E da questo desiderio, nel 2004, è nata l’Associazione “Baktalo drom”, letteralmente “strada fortunata”, che ha segnato una svolta nel protagonismo della comunità rom. Ferizaj ricorda che la prima decisione, quasi a voler segnare uno spartiacque fra il prima e il dopo, è stata quella di dare un nome al campo: “Lo abbiamo chiamato ‘villaggio Fatima’ per affidarlo alla Madonna, perché lei pregasse per le nostre famiglie e provvedesse ai nostri bisogni. È vero che siamo musulmani, ma la devozione a Maria è stata sempre forte nelle nostre case”. E quanto Ferizaj fosse legato al campo lo ha dimostrato lo scorso aprile, nel giorno dello sgombero: è stato l’ultimo a uscire e con gli occhi pieni di lacrime ha seguito l’imponente pala meccanica mentre spazzava via quello che fino a qualche momento prima rappresentava il centro della sua vita.
Quello dello sgombero è un capitolo che ha ferito la dignità di Ferizaj e lo comprendiamo dalle sue parole: “Noi volevamo uscire dal campo, da quella situazione precaria, ma quello che ci ha fatto rabbia è vedere tanta improvvisazione in un momento così delicato per la vita delle persone. Abbiamo tollerato uno sgombero in piena notte, anche se ci è stato difficile far capire ai nostri bambini che si trattava di un trasferimento. Abbiamo avuto paura quando la gente protestava contro di noi e rivedo ancora il volto impaurito delle nostre donne, sembravano essere ritornati i fantasmi di episodi vissuti in una terra che avevamo ormai lasciato da tempo”. Dopo la paura del momento dello sgombero, è sopraggiunta l’inaspettata constatazione dell’inadeguata sistemazione alloggiativa prevista per queste famiglie. Tutto questo ha alimentato un clima di sfiducia di fronte al progetto “Casa Lavoro”, prospettato dall’amministrazione comunale, che dovrebbe garantire entro 18 mesi strutture abitative più adeguate e definitive, ristrutturate dagli stessi Rom.
Il sogno di Ferizaj è quello di assicurare un futuro ai propri figli, realizzando una paninoteca su un furgone attrezzato, per cui ha già una licenza; la difficoltà è quella di accedere al credito per acquistare il necessario.
Anche nell’opportunità dell’incontro con il Papa ha privilegiato i suoi figli, decidendo di far partecipare al suo posto il figlio maggiore e a proposito di questo evento ci dice: “Ė stata una grande gioia per me e per la mia famiglia sapere che il Papa ci riceve in Vaticano; per noi ricevere una persona significa sentirla come una della propria famiglia. In questo caso io sento Benedetto XVI come un mio familiare, un parente importante a cui chiedo di pregare per il popolo rom, perché questa sua attenzione ci faccia sentire meno abbandonati e strumentalizzati”. (S. Tornesi – Ufficio Migrantes Messina)