“A Piedi Scalzi” sulla terra lampedusana

La parola ai giovani di Askavusa

Lampedusa – Si riconoscono sotto il nome di Askavusa, il cui significato letterale è “A Piedi Scalzi”, per indicare il contatto diretto e senza filtri con la nuda terra. Quella dell’Isola di Lampedusa, dove molti di loro sono nati e cresciuti e dove, dopo un breve o lungo periodo di lontananza, hanno sempre fatto ritorno. Incontriamo Giacomo, uno dei fondatori dell’associazione, nella hall del nostro albergo è con lui ci confrontiamo su diversi argomenti. Ha due figli, uno di sei e uno di quattro anni e da qualche anno è sposato con una ragazza come lui lampedusana doc. Dopo appena qualche minuto l’argomento si focalizza sulla questione immigrazione: Giacomo, infatti, con i suoi amici “associati”, ha sempre messo al primo posto l’incontro con l’Altro, con cui, purtroppo, gli isolani non riescono mai pienamente a confrontarsi: “Abbiamo l’Africa in casa – afferma con sicurezza il barbuto trentenne – eppure non l’abbiamo mai veramente vista, anzi non ce la fanno vedere. Già da diversi anni, da quando cioè a Lampedusa sono diventati frequenti gli sbarchi dei migranti e il loro contestuale trasporto temporaneo al Centro d’accoglienza di Contrada ‘Mbriacola, abbiamo fatto il possibile per ottenere l’autorizzazione che ci permettesse di accedere alla struttura: avremmo voluto parlarci, ascoltarli, incontrarli anche solo per vedere una partita di calcio. Noi dobbiamo conoscere le loro storie perché sono persone come noi e rappresentano un pezzo di storia di cui non si può più non tenere conto”.

 
Ed in effetti la vicinanza di Askavusa verso le tematiche della mobilità umana è evidente anche negli obiettivi che l’associazione si propone di raggiungere, e che Giacomo ci espone con enorme chiarezza: “Il nostro grande desiderio sarebbe quello di realizzare un Museo dell’Immigrazione in cui poter conservare tutto ciò che può servire a capire meglio la realtà di quei popoli al di là del Mediterraneo, di quelle persone che abbandonano la loro terra, il loro passato e che su quei barconi portano solo sé stessi e la fotografia di qualche parente, di un figlio, di una madre, di un fratello. Arrivano qui senza niente nelle mani e guardandoli negli occhi nel momento in cui sbarcano mi rendo conto di essere profondamente fortunato”.
In attesa che il sogno possa diventare realtà, i ragazzi di Askavusa, nel corso degli anni, hanno conservato in una delle stanze della loro sede, molti dei “segni” lasciati dai “fratelli africani” e recuperati proprio dai barconi che li hanno condotti fino alle coste della salvezza: fotografie, scarpe, giubbotti di salvataggio indossati durante la traversata, vestiti, piccoli oggetti artigianali di ogni forma e dimensione: “Quello che abbiamo potuto esporre nella nostra stanza è solo una parte di ciò è stato raccolto in questi anni: ci sono ad esempio anche tante lettere che però non abbiamo mai potuto tradurre ma che sicuramente cercheremo di far decifrare. Ci vuole tanta pazienza, ai miei amici ho detto che i risultati della nostra attività non li vedremo certo a breve, se tutto va bene potranno farlo i nostri figli. Questo, come mi è spesso capitato di dire, è il momento della semina, quindi bisogna aspettare”. Al tempo stesso però Giacomo lancia un monito alle istituzioni: “I lampedusani hanno voglia di cambiare, ma per far questo vanno aiutati, non possono più essere abbandonati così come è avvenuto nel corso dell’ultima emergenza, altrimenti sarà tutto inutile”. (E. De Pasquale – Ufficio Migrantes Messina)