Migrantes a Lampedusa: chi sono i nostri fratelli?

La lezione della testimonianza. Viaggio per “raccontare la Speranza”

Lampedusa – Sessantasette ragazzi, sessantasette domande a raffica alle quali dare risposte accettabili e, un minuto più tardi, sempre sessantasette ragazzi e ancora sessantasette domande a raffica alle quali dare altre sessantasette risposte accettabili. Un requisito che dipende non solo dalla ragionevolezza delle risposte, ma anche dall’età dell’interlocutore, dalla curiosità sua e dei compagnetti che gli siedono accanto, in una delle stanze della parrocchia.

 
Non è semplice il ruolo di Pina, Pilla e Angela, catechiste per fede e maestre di vita per disposizione d’animo, alle prese con la domanda che anche le altre catechiste hanno dovuto affrontare in questi giorni e in quelli trascorsi, ma ancora ben presenti, dell’emergenza: chi sono questi uomini sbarcati nella nostra isola? Sono anche loro i nostri fratelli?
“Che strano, non sapevamo distinguere i nostri dai loro – spiega Pina, la coordinatrice del gruppo – strano mi sembrava, lo ripeto, perché molti di loro erano giovani, tali e quali ai nostri figli, a quelli più grandi, con i quali giocavano”. Un’osservazione che è una risposta implicita a quella domanda sul senso ultimo di ciò che stava accadendo: la diffidenza verso gli altri caduta, dissolta in un attimo, con naturalezza la gente dell’isola ha sollevato un ponte e a percorrerlo sono stati tutti quelli che qui sono giunti dopo avere attraversato il mare. “I ragazzi della Cresima erano in contatto diretto con i tunisini appena sbarcati ed è stato così per tutta la prima fase – dice Pilla – il problema non erano loro, ma via via che arrivavano, ci sentivamo sempre più soli e abbandonati di fronte alla dimensione di quello che stava accadendo, lo capivamo che era una cosa grande”.
“I bambini della Prima Comunione erano incuriositi – racconta Angela – qui sono abituati a giocare fuori, ma poco a poco gli spazi del loro divertimento sono stati occupati e loro, più che impauriti, si sono sentiti impediti. Ma non hanno vissuto questa vicenda negativamente, anche perché nulla di negativo è accaduto, anzi hanno capito il dramma di questa gente che aveva lasciato casa”.
Tutto questo finché erano tanti ma non troppi, solo che a quel punto la comunità lampedusana, invece di chiudersi, ha fatto un ulteriore passo in avanti e le lezioni di catechismo sono diventate pratica di vita ed è stato più che mai chiaro che il prossimo ha il volto dell’uomo, di tutti gli uomini e le donne che Dio mette sul nostro cammino. L’isola tutta, ma la parrocchia di San Gerlando in particolare si è trasformata in un centro di accoglienza: “Insieme al nostro parroco, don Stefano Nastasi ci siamo chiesti cosa ci stava dicendo Gesù; ne abbiamo parlato anche negli incontri di preghiera e ci siamo detti che quello era il momento di essere noi un dono per gli altri attraverso l’aiuto che potevamo dare a questi nostri fratelli”.
“E’ stato tutto così improvviso e spontaneo – aggiunge Angela – che noi catechisti siamo diventati testimoni di accoglienza e anche grazie a quanto è accaduto i ragazzi del catechismo hanno capito che ci è stata concessa la grazia di mettere in pratica il Vangelo”.
Nessuno con le mani in mano nemmeno per un momento. I lampedusani hanno chiamato il time out al Cielo e si sono rimboccati le maniche per dare ai loro fratelli ciò che dalla terra non voleva venire. “Docce, vestiti, caffè, pesci e pane, conforto – racconta Pina – abbiamo chiuso i nostri negozi, sospeso le nostre attività e ci siamo dedicati a loro perché capivamo che c’era qualcosa più grande di noi che ci chiamava. Vederli partire – aggiunge – non è stato facile e oggi, per certi versi, abbiamo un po’ nostalgia di quelle giornate in cui era il loro grazie a riempirci, ma sappiano – conclude – che quei giorni possono tornare e noi sapremo affrontarli”. (N. Arena – ufficio Migrantes Messina)