La direzione giusta

Sbarchi a Lampedusa e sentenza Ue sul reato di clandestinità

Bruxelles – La sentenza con la quale la Corte di giustizia europea di Lussemburgo ha bocciato la normativa italiana sulla carcerazione per gli immigrati irregolari sta suscitando un vivace dibattito sia in Italia sia in Europa.
Con la ripresa di sbarchi massicci a Lampedusa il confronto continua con una ulteriore presa di coscienza delle molteplici dimensioni del fenomeno.
In sostanza la Corte Ue conferma quanto avevano segnalato a più riprese la Corte costituzionale e i Tribunali nazionali: alcune disposizioni del cosiddetto “pacchetto sicurezza” del 2009 (il reato di clandestinità, la carcerazione degli “irregolari”) contrastano con la direttiva comunitaria del 2008 sui rimpatri. La normativa tricolore “rischia di compromettere – secondo la Corte di giustizia – la realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla direttiva, ossia l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare nel rispetto dei loro diritti fondamentali”.
Il ministro degli Interni ha protestato con convinzione. Ma la sentenza era attesa e in qualche modo preannunciata. Così dal mondo cattolico si sono levate numerose voci che, ricordando la loro contrarietà al provvedimento sin dai tempi della sua gestazione, ribadiscono come ogni Paese deve garantire la sicurezza dei suoi cittadini e ha il dovere di far rispettare le proprie leggi, senza però negare o mortificare i diritti umani fondamentali e nemmeno le normative europee. Le quali, è bene ricordarlo, sono varate e sottoscritte con l’accordo di tutti gli Stati membri dell’Unione, Italia compresa.
Non a caso mons. Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, ha commentato la sentenza di Lussemburgo come “un passo avanti verso un diritto delle migrazioni che aiuti a rendere efficaci le azioni e le politiche migratorie dei singoli Stati europei, comprese anche quelle di allontanamento e di rimpatrio, senza però mai ledere i diritti della persona”. Oliviero Forti, responsabile nazionale dell’ufficio immigrazione di Caritas italiana, ha dal canto suo sottolineato un altro aspetto: “Ora ci attendiamo risposte adeguate da parte del governo italiano e cioè che venga recepita la direttiva Ue sui rimpatri e quindi che venga rispettata la sentenza europea”.
Ma in sede Ue si va oltre questo singolo, benché rilevantissimo caso. Anche perché gli esempi di “frizioni” tra Ue e governi in relazione al rispetto delle leggi europee sono abbastanza frequenti: si pensi, ancora di recente, alle disposizioni sulla libera circolazione delle persone messa in pericolo dalle espulsioni di cittadini comunitari di origine rom effettuate la scorsa estate dalla Francia; oppure alle regole del Patto di stabilità (rigore nei conti pubblici) o alle “quote latte”…
In realtà il dibattito politico e legislativo in atto torna a segnalare la necessità che tutti gli Stati aderenti rispettino il diritto dell’Unione. E ciò dovrebbe avvenire con la lungimirante intenzione di costruire una “casa comune” che opera nell’interesse dei cittadini europei, dei Paesi che vi aderiscono, persino della Comunità internazionale. In tutte le politiche Ue e nei rapporti tra le istituzioni dei Ventisette e le singole capitali si dovrebbe procedere secondo i principi-cardine della solidarietà e della sussidiarietà e nella direzione del “bene comune europeo”. La Corte di giustizia, con la sua sentenza, forse voleva indicare anche questo percorso. (
Gianni Borsa)