I giorni dell’emergenza attraverso gli occhi di Silvana

Viaggio della Migrantes a Lampedusa: “Raccontare la Speranza”

Lampedusa – Il nostro viaggio verso la Porta del Mediterraneo è iniziato in modo avventuroso e altrettanto avventurosamente si è concluso. Saremmo dovuti salpare da Lampedusa con il “solito” traghetto Palladio alle 10.15, ma la sera prima, intorno alle 21.30, Mimmo, uno degli “angeli” della Guardia Costiera, dopo i dovuti accertamenti, ci comunica che la nave, a causa del maltempo, non ha lasciato Porto Empedocle e che dunque la mattina successiva non sarà a Lampedusa. Io e miei compagni di viaggio ci guardiamo un pò straniti, non vogliamo ammetterlo apertamente ma trascorrere ancora un giorno a Lampedusa farebbe piacere a tutti. Poi però il senso del dovere prevale e così decidiamo di optare per la partenza in aereo, quello delle 7.30 che arriverà a Palermo alle 8.15. Così è. In appena 45 minuti, un volo, anzi una volata, rispetto alla traversata di ben otto ore, tocchiamo terra. Sorvolando il Mediterraneo ripenso a ciò che mi sono lasciata dietro ma che porto dentro: le storie, i volti, gli abitanti. In una parola Lampedusa.

 
Tre giorni intensi e pieni di sensazioni di cui abbiamo cercato di raccontare tutto il possibile. Unica tappa mancata, non certo per volontà o disinteresse, la visita al Centro di soccorso e prima accoglienza dove gli immigrati sono stati “ricoverati”. Qui infatti le possibilità di accesso sono estremamente limitate, il lasciapassare viene riservato quasi esclusivamente agli “addetti ai lavori”.
Come Silvana Lucifora, nata a Palermo ma cresciuta a Lampedusa, che incontriamo per caso sulla strada di ritorno verso casa e a cui diamo un passaggio fino ad Agrigento, dove farà la comparsa su un set cinematografico: “Lo faccio perché mi diverto” ci spiega, forse un modo per “evadere” dai confini, a volte un po’ stretti, di un’isola. Nella vita, quella vera, è una delle operatrici che nei giorni dell’emergenza ha lavorato presso il Centro dell’isola: attraverso i suoi occhi “rivoliamo” a Lampedusa al di qua della rete che “accoglie” gli immigrati, per lo più tunisini: “Ci sono stati giorni – ci spiega Silvana, impiegata a tempo indeterminato della Cooperativa Lampedusa Accoglienza ricordando la fase clou dell’emergenza – in cui siamo arrivati a preparare anche 10.200 pasti. Non ci fermavamo mai, nemmeno di notte, perché alle cinque (della mattina ndr) erano già pronti e confezionati i pasti che sarebbero stati distribuiti durante la giornata”. Il menù era standard: quasi sempre pasta, qualche volta minestrone o cotoletta con patate, pietanze che gli ospiti non sempre sembravano gradire: “A volte si lamentavano e i più contrariati erano i tunisini”. Silvana ricorda bene anche i giorni in cui gli immigrati, per protesta, decisero di digiunare: “Noi li comprendevamo, anche perché non erano abituati a mangiare certe cose, ma per così tante persone era difficile cucinare qualcosa di diverso da quello che si preparava”.
Silvana, mamma di una figlia di vent’anni che pur di non lasciare Lampedusa ha deciso di non proseguire gli studi fermandosi alla terza media (l’unica scuola superiore dell’isola è un liceo scientifico ndr), ha prestato assistenza anche nel 2009 e rispetto all’ultima emergenza nota delle evidenti differenze: “Il numero degli immigrati due anni fa era decisamente più contenuto e ciò permetteva anche di instaurare un rapporto umano con queste persone, un maggior contatto, cosa che invece in questo caso è mancato, anche perché erano necessarie più regole”. Una sorta di “industria del volontariato” quella creatasi a Lampedusa duranti i picchi di afflusso degli immigrati, i cui tempi venivano dettati più dalla frequenza, praticamente continua, degli sbarchi che dal bisogno di venire incontro all’altro. Silvana tuttavia, così come molti altri suoi amici e colleghi né è convinta: “La situazione è stata mal gestita, anzi loro sono stati fin troppo pazienti, sarebbe potuto succedere molto peggio”. Pazienti gli immigrati, altrettanto pazienti gli isolani, due “forze” capaci di mantenersi da sole in equilibrio e di autogestirsi. Perché anche di questo i lampedusani sono certi: di essere stati lasciati da soli di fronte all’emergenza. Il dialogo con la nostra interlocutrice è fitto, intenso, “sfruttiamo” fino all’ultimo istante la sua testimonianza, ma arriva il momento dei saluti. Anche sulla terraferma abbiamo portato con noi un “pezzetto” di Lampedusa. (E. De Pasquale – Migrantes Messina)