Libertà a confronto

Il 25 aprile di una madre, un sindacalista ed un vescovo a Lampedusa

Lampedusa – Arèm vorrebbe portare suo figlio con sé, a casa, a Trapani. Ed è per questo che si trova a Lampedusa. Perché Sofien, il suo ragazzo, è dentro i cancelli del CSPA. Quest’ultimo ha ventisette anni ed è un elettricista: lavorava per 5 euro al giorno a El Mourouj, in Tunisia. Sua madre, invece, è sposata con un italiano e vive nel Bel Paese da 28 anni.  La donna italo-tunisina lavora sia come cuoca che come colf, talvolta in regola ed altre “forse”- ironizza la stessa, che nasconde dietro occhiali da sole il suo nervosismo. È nervosa –confida- “perché a Lampedusa sta spendendo troppi soldi e nessuno sa dirgli se suo figlio potrà rimanere in Italia”. Lo spettro infatti è quello del rimpatrio: il ragazzo è arrivato in Sicilia dopo la mezzanotte del 5 aprile, la fatidica deadline per aver diritto alla protezione temporanea. E sua madre attende, giorno dopo giorno, spinta da un istinto irrefrenabile, quello materno appunto. Arèm trascorre la giornata a Lampedusa telefonando a Sofien e portandogli quello che gli serve: shampoo, sigarette e frutta.  

Antonio Riolo è un sindacalista: è segretario regionale della CGIL. Con altri 5 “compagni” ha posto fiori sulle “tombe senza nome” del cimitero di Lampedusa. Quest’ultime sono quanto resta dei corpi inghiottiti dal mare: delle anime affidate ai barconi: delle vittime della speranza. Su un velo di cemento, spaccato dal sole, campeggia un’incisione fatta con un chiodo: “07/06/2008, extracomunitaria”. Chissà cosa significhi quest’ultima parola dal momento in cui queste tombe sono parte integrante della comunità lampedusana, della sua storia, della sua crescita. Su quest’ultima lapide improvvisata è stata posta una rosa rossa. “Questi fiori hanno un duplice significato: vogliono onorare coloro che hanno perso la vita rincorrendo pane e libertà” –spiega Antonio Riolo- “e desiderano inoltre ricordare quei partigiani che hanno lottato per liberare l’Italia dalle leggi razziali”.

Preferisce essere chiamato Don Franco, Mons. Francesco Montenegro, perché ama il contatto con il popolo. È un vescovo che guida lo scooter e che ama sedersi sui gradini della chiesa. Lo incontro all’entrata della sagrestia di S. Gerlando, vicino ad un quadro in cui una colomba bianca si staglia sulle parole: “i veri figli di Dio sono liberi”. Così gli chiedo che cosa sia la libertà: “io penso che non sia potenza, ma servizio – afferma Don Franco- libertà è inoltre rispetto di sé e degli altri”. “La libertà è essere poveri” – aggiunge il vescovo della Diocesi di Agrigento – “perché i poveri, nel relazionarsi, non si fanno limitare dalla diversità, dalla differenza di religione e di cultura”.

“La povertà non è però avere le pezze ai pantaloni, la povertà non è miseria” –puntualizza il vescovo del popolo- “la povertà è la capacità di sapersi offrire totalmente, spogliandosi del proprio ego”. “Purtroppo sia il migrante che il povero non hanno ancora trovato pienamente il  loro posto nella Chiesa” –confida Don Franco- “perché quest’ultima deve scoprire il bisognoso non come peso sociale ma come dono, come testamento di Cristo”.