La Via Crucis a Lampedusa

Tra storie diverse di immigrazione e accoglienza

Lampedusa – Quattordici croci ricavate dal legno dei barconi scandiscono la Via Crucis del migrante. “L’intera vita è una processione”, spiega don Vincent Mwagala, viceparroco della chiesa di San Gerlando, posta al centro di Lampedusa. Don Vincent proviene dalla Tanzania e conosce bene gli stenti dell’Africa e proprio per questo le sue parole, pacate, assumono una forza straordinaria. “Nella vita ci sono grandi e piccoli cammini: quelli piccoli sono le migrazioni, gli spostamenti per trovare da mangiare, da bere. Dei cammini grandi, invece, ce n’è uno solo: l’incontro con Dio”, commenta Vincent. Dentro la chiesa di San Gerlando c’è un’altra donna di colore. Snocciola un rosario, dinnanzi alla Croce. Ha i capelli raccolti in una coda fatta di treccine e le mani da lavoratrice. I ragazzi della parrocchia mi raccontano che nei giorni dell’emergenza questa donna africana ha mostrato un’energia straordinaria: ha cucinato per i migranti e ha distribuito loro vestiti e coperte. Si chiama Pascaline Hounkanrin, proviene dal Benin. “Una caratteristica dell’essere umano è che riesce a fare propria la sofferenza degli altri”, afferma Pascaline: “io, insieme a tanti altri volontari, ci siamo immedesimati nelle speranze dei migranti ma anche nei problemi dell’Europa e abbiamo cercato di fare il possibile per non far mai mancare il rispetto per la vita”. Pascaline suggella ogni sua parola con un sorriso umile e sincero, che pochi volti conoscono. Le chiedo cosa ne pensa delle croci fatte con le travi dei barconi, lei mi mostra un passo di quella Bibbia che stringe con delicata forza, è in lingua francese: “Jésus leur dit: venez avec moi et je ferai de vous des pêcheurs d’hommes” (Marco 1, 17). Sembra che l’inchiostro nero di questa pagina sia stata scritta sulla mano di Pascaline, che afferma: “con il legno si costruiscono barche, con il legno si costruiscono croci: l’uomo deve scegliere il cammino”. E quest’ultimo è imprevedibile. Afuad, ad esempio, è un ragazzo sulla trentina che ho incontrato, lo scorso febbraio, all’entrata del centro di soccorso e prima accoglienza di Lampedusa. Ci siamo frequentati un paio di giorni, tra caffè e fotografie. E al momento del suo trasferimento ci siamo promessi di risentirci: il suo punto di riferimento in Italia è Ali, suo fratello maggiore, che abita a Torino. Afuad mi ha raccomandato: “chiamalo e lui parla per me”. Così, sfogliando il taccuino di viaggio, colgo l’invito. Ali mi risponde. È gentile. Spiego come ho avuto il suo numero. E lui mi manifesta, con stupore, che Afuad gli aveva già parlato di me. E allora mi racconta l’iter del fratello: Lampedusa, Foggia, Ventimiglia e Parigi. “Gli ho dato 500 euro”, dice Ali, “così può rimanere in Francia fin quando non trova un lavoro”. “Lui il permesso di soggiorno ce l’ha”, specifica Ali. E quest’ultimo aggiunge: “ci vuole tempo per trovare lavoro, io lo so. Sono arrivato in Italia nel ’91 e ho fatto l’agricoltore, il macellaio, il muratore e adesso monto mobili da tre anni”. Diversa è la storia di ‘Aimin, anche quest’ultimo ex-ospite del centro di accoglienza di Lampedusa e mio compagno di caffè e colloqui. “Sono preoccupato per quel ragazzino”, confida Slim, che è un caro amico di suo padre: “circa venti giorni fa mi ha telefonato dicendomi che era scappato da Mineo e voleva andare in Francia. Voleva soldi, ma io non glieli ho potuti dare: ho una famiglia”. Chiedo a Slim dove si trovi adesso ‘Aimin: “non si è fatto più sentire”, risponde Slim. Quest’ultimo chiama ‘Aimin “il ragazzino” perché in realtà lo è: ha poco più di vent’anni. Ed è la seconda volta che arriva in Italia su un barcone. La prima “partenza” si era però conclusa con un rimpatrio, a cui era seguita un’incarcerazione per “clandestinità”, riferisce Slim. E quest’ultimo aggiunge: “capisci perché ‘Aimin in Tunisia non vuole più tornare?”. “Io sono preoccupato” – ripete Slim. Così tra lavoro ed elemosina, tra gioia e preoccupazione, tra scommesse e sconfitte: croci in cammino dovunque. E come le vite di questi migranti anche le 100 croci ricavate dai loro barconi sono state sparse simbolicamente per tutto il territorio della Diocesi di Agrigento. Perché la Via Crucis, in fondo, appartiene a tutti.