Il “custode” delle anime degli immigrati: ad ognuno la sua croce

Viaggio della Migrantes a Lampedusa: “Raccontare la Speranza”

Lampedusa – Fino al 2007 è stato il custode del cimitero, oggi è il custode delle anime degli 86 immigrati che le coste di Lampedusa le hanno “toccate” già privi di vita, “cullati” fin lì dalle onde del mare come nel lento incedere di un corteo funebre. Vincenzo Lombardo, questo il suo nome, ricorda perfettamente chi è sepolto dove: “Qui c’è Mustafa Alì, il primo che ho seppellito, qui invece una povera ragazza di soli 18 anni che in quello sbarco (2009 ndr) è stata l’unica a non sopravvivere. Che dolore ho provato, era così bella”. Si chiamava Esath Ekos, veniva dalla Nigeria, il suo nome lo vediamo scritto sulla targa in pietra nera poggiata sulla tomba color azzurrino. E’ una delle poche che oltre ad avere un volto, ben impresso nella mente di Vincenzo e che noi cerchiamo di immaginare, ha anche un nome perché al momento del ritrovamento portava ancora indosso i documenti. Prima e dopo di lei ce ne sono stati tanti: anche 13 in una sola notte quelli che Vincenzo, con amore quasi paterno, ha sollevato dalla fredde acque che circondano e “isolano” il perimetro di Lampedusa: “Li ho caricati uno dopo l’altro e li ho portati fino al cimitero. Ho fatto ogni cosa da solo, tutti si impressionavano, avevano paura, ma non li rimprovero per questo, era normale. All’inizio anche per me è stato difficile, per i primi cinque giorni non sono riuscito neanche a mangiare, avevo sempre la nausea, ma poi ci ho fatto l’abitudine”.

 
Vincenzo non aveva e non ha dubbi: quella, per quanto difficile, era l’unica cosa da fare: “Dio ci ha insegnato che dobbiamo aiutare un nostro fratello, io ho fatto solo questo. Lo sapevano tutti che non mi sarei mai tirato indietro e infatti ormai mi chiamavano a qualsiasi ora, sia di giorno che di notte”. Un’unica cosa, per sua stessa ammissione, lo avrebbe “immobilizzato”: dovere accogliere tra le sue braccia il corpo di un bambino, perché in quel caso, esattamente come un padre di fronte alla morte del proprio figlio, il dolore e la disperazione avrebbero preso il sopravvento: “Fortunatamente non è mai successo – afferma sgranando gli occhi con un’espressione di terrore quasi avesse davanti uno di quei corpicini – mi sarei bloccato”.
Vincenzo ci fa da Cicerone all’interno del piccolo cimitero di Lampedusa, quasi fosse la sua seconda casa, perché in fondo un po’ lo è: per lui quel luogo non è sinonimo di morte, ma di quotidiano incontro con i propri “fratelli”: “Ne ho sepolti in tutto 86: ogni mattina, dopo la messa delle nove, vengo a pregare per ognuno di loro, perché so che loro un giorno lo faranno per me. Qualcuno mi prende per pazzo, ma è la fede che mi spinge a farlo”.
Per lui nessun compenso straordinario, nessun ringraziamento “ufficiale”, nessuna menzione, ma in fondo gli importa poco, perché “quando sarò davanti a Dio sarò premiato”. Eppure un piccolo sassolino dalla scarpa Vincenzo vuole toglierlo: “Mi sarei aspettato solo una stretta di mano dal sindaco”.
Il cuore di Vincenzo non è solo quello del custode, ma anche del marito, del padre, del nonno: “La mia famiglia all’inizio non era d’accordo con questa scelta, aveva paura per la mia salute, poi però mi sono stati accanto” così come durante il nostro incontro lo è la moglie, che Vincenzo ci presenta pieno di orgoglio: “Si chiama Giuseppa Giovanna D’Ippolito, in quei giorni di trambusto ha fatto il possibile per queste persone, dava da mangiare, portava il caffè, come tutti gli altri isolani”. Perché Vincenzo la bontà e la generosità che riserva ai “suoi” immigrati, la rivolge anche a coloro che a Lampedusa arrivano vivi e disperati: “Come li si può “riconsegnare” al mare, nel loro paese hanno la guerra, noi li dobbiamo aiutare, il mondo che ha creato Dio è per tutti. Non possiamo impedire loro di salvarsi”.
Quest’ultima frase rimbomba nelle nostre orecchie, perché è come se alla voce di Vincenzo si fosse unita anche quella dei suoi 86 “figli adottivi” che tutti insieme ripetono: “Non ci potete impedire di salvarci”. E’ con loro che abbiamo condiviso la nostra chiacchierata con Vincenzo, tra le tombe e le croci amorevolmente realizzate dal papà isolano che non considera quello un luogo di morte: “Qui si sta bene, c’è silenzio e tranquillità, il vero cimitero è il Mediterraneo”. (E. De Pasquale –  Migrantes Messina)