Bambini e donne tra i 220 profughi scampati al mare forza 4

Viaggio della Migrantes a Lampedusa: “Raccontare la Speranza”

Lampedusa – Questa volta sono 220: li chiamano profughi, migranti, persino clandestini. Comunque li si voglia chiamare sono 220 esseri umani. Le facce stanche parlano per loro, ma è presente la paura per quel legno partito da Misurata che imbarcava acqua e per le onde alte due metri che hanno lambito le loro esistenze fino a poche ore prima di rimettere piede sulla terra. Mentre sbarcano in silenzio dalle tre motovedette Sar della Capitaneria di Porto lampedusana, attorno a loro si stringe una folla che confonderebbe chiunque, figurarsi chi sulle spalle ha già un viaggio attraverso il dramma e dentro la testa il fischio del vento a 28 nodi e il ruggito del mare forza 4.
Le donne, in totale 32, una delle quali incinta, sono le prime a essere soccorse insieme agli 8 bambini. Sono proprio i più piccoli quelli meno impauriti, il gioco della vita lo hanno imparato subito, lo svezzamento è stato immediato, ma senza traumi apparenti. Quattro vanno via in ambulanza, mentre in fila indiana gli altri migranti scendono dalle motovedette, protetti dal cordone di poliziotti, carabinieri e assistiti dagli operatori dell’Alto commissariato Onu per i profughi, dell’Oim, di Save the Children e di Medici senza Frontiere.
Sulle nazionalità c’è incertezza, i dati li fornirà la Polizia dopo l’identificazione sommaria, ma gli operatori sul posto parlano di bengalesi, pachistani, forse anche iracheni, maliani, ivoriani, nigerini e congolesi.
Per ogni migrante una bottiglietta di acqua e una merendina all’albicocca. Pochi passi nella piazzetta del molo Bunker e subito altri volontari li avvolgono in coperte termiche. “Sembrano uova di Pasqua” cerca di sdrammatizzare uno dei tanti curiosi mentre fotoreporter, giornalisti e cineoperatori di testate nazionali e straniere sgomitano alla ricerca dell’inquadratura migliore. Alcuni tentano di oltrepassare il servizio d’ordine, altri protendono i microfoni per captare qualche battuta. Un’infermiera di Medici senza Frontiere aiuta un uomo infreddolito e bagnato fino al collo a svestirsi e cambiarsi d’abito, invita un operatore a non riprendere l’operazione, la privacy è sacra anche sotto gli occhi di centinaia di persone. La telecamera si abbassa e si dirige altrove: “Non l’ho ripreso, non lo vedevo – spiega – un cuore ce l’ho”.
Uno dei migranti recupera una borsa di plastica verde, effetti personali e il ricambio, niente foto della famiglia perché, dice in un inglese affaticato, avrebbe potuto perderle nella traversata. Anche lui, poi, viene accompagnato sul pullman di Lampedusa Accoglienza. Entrano tutti dalla porta anteriore, l’altra è stata bloccata per evitare fughe lungo la via che li porterà al centro di soccorso e prima accoglienza di contrada Imbriacola.
Quando l’ultimo autobus parte, i volontari della sezione di Protezione civile degli Alpini si materializzano e ripuliscono la piazza in tempo reale. Poco per volta vanno via tutti, restano gli uomini con la penna sul cappello a eliminare l’ultima traccia di un’emergenza che non convince nessuno perché da anni è diventata routine. (Nino Arena Ufficio Migrantes Messina)