“Tempi e persone a misura di profitto”

L’eritreo Habté Weldermariam e la nicaraguese Lidia Obando delle Acli raccontano il lavoro lavoro a partire da quello degli immigrati

Milano – “Come vedo oggi l’Italia? Non sarà granché come disamina sociale, ma posso dire che dopo 40 anni che sono qui, mi sorprendo a notare che gli italiani mi fanno ancora le stesse domande di un tempo: sulla mia pelle, sui miei capelli, come se fossi un extraterrestre. Non si sono resi conto che il Paese è cambiato?”.

 
Habté Weldemariam è eritreo (e cittadino italiano da qualche anno), cattolico di rito copto-alessandrino, ed è in Italia dal 1974, un anno prima della caduta dell’antichissimo impero etiopico.
“A differenza di molte famiglie – spiega – che per il futuro dei propri figli guardavano agli Usa o all’Inghilterra, mio padre insistette nel ‘vedere la fortuna’ in Italia; perché mio padre stimava l’Italia come terra benedetta dove si trovano ancora le orme di san Pietro”. Habté da anni lavora nell’ufficio studi delle Acli, la storica associazione dei lavoratori cristiani. Avrebbe potuto rispondere snocciolandoci dati o raccontandoci una delle migliaia di vicende emblematiche di economia sommersa e di sfruttamento del lavoro – quello degli immigrati in specie – che conosce e tocca con mano. Invece, ci mette di fronte un’immagine ampia, trasversale: un Paese che da almeno quarant’anni si fa sempre le stesse domande. E purtroppo sembra dare anche le stesse risposte, come l’agenzia Ansa ci ricorda proprio mentre parliamo: “Sigilli a una fabbrica di Teramo che operava in nero, impiegando, senza assunzione, nove italiani”.
L’esperienza dell’immigrazione, al tempo della legge Bossi-Fini, porta a contatto con una dimensione culturale e sociale italiana che scavalca l’orizzonte delle vite dei migranti e riguarda tutti: senza lavoro rischi di non poter essere una persona, avere una dignità, essere riconosciuto, visibile, portatore di diritti. O quanto meno di una storia da ascoltare.
Ecco perché nella “terra benedetta” dell’immaginario di papà Weldemariam, il lavoro è stato anche tra i temi oggetto di particolare attenzione al convegno ecclesiale di Verona nel 2006. E oggi dovrebbe tornare al centro della “sfida educativa” lanciata a se stessa e a tutto il Paese dalla Chiesa italiana. A Verona il gruppo su “lavoro e festa” – non lesinando critica e autocritica – sottolineò la necessità da parte del mondo ecclesiale italiano di riconquistare una visione realistica del mondo del lavoro, di fronte al “carattere plurale, addirittura ‘ambiguo’, del tema del lavoro”. In quell’occasione, venne denunciata “la perdita di significato dell’esperienza della festa” e si lanciò l’invito a “invertire, da un punto di vista cristiano, il rapporto tra lavoro e festa», recuperando “quell’orizzonte più comprensivo che unisce lavoro e festa, quello del tempo cristianamente vissuto”.
Cinque anni dopo è emblematico quanto successo in occasione di questo anniversario dell’Unità d’Italia. “Sai che quest’anno – racconta Habté – per noi eritrei-etiopi – anche se siamo cristiani dal II secolo – sono 150 anni che siamo cattolici? Ci sarà una grande festa nella nostra comunità”. E sembrava essere intenzione delle istituzioni celebrare davvero una grande festa (laica, ovviamente) per il nostro 150°, fissando la data a giovedì 17 marzo. Ma subito il mondo produttivo italiano ha aggrottato la fronte, preoccupato per le conseguenze di un fermo alla produzione.
“Mi pare che un certo efficientismo e il materialismo abbiano colpito duro negli anni anche l’Italia. Ma da quel che vedo io in giro alle persone questo non basta. Saper amministrare il tempo libero è fondamentale, anche per poter cercare e trovare tempi di ascolto e formazione cristiana”. A parlare è Lidia Obando, logopedista nicaraguense, mamma di quattro figli, da 22 anni in Italia, uscita da un Paese in cui vivere da cristiani poteva costare la vita. Non è una che passa il tempo con le mani in mano: tra formazione, impegni associativi, lavoro di cura nelle nostre case e assistenza a lavoratori immigrati e non, Lidia sembra davvero una piccola ape operaia. È stata per anni responsabile nazionale delle AcliColf, di cui ora cura la formazione spirituale. “Da anni mi occupo di chi si prende cura di tanti italiani. E attraverso i bisogni di queste lavoratrici e lavoratori particolari, vedo anche i vostri… Per me la ‘cura dell’anima’ è la chiave di tutto: dare senso cristiano a ogni ora vissuta per tutti è fondamentale. Non si è cristiani perché si riesce ad andare a tutte le celebrazioni liturgiche e basta. Per una colf credente costretta a lavorare duramente anche di domenica, questo, per esempio, è chiarissimo. E per gli italiani? Non so…”.
La conciliazione tra tempi di lavoro e “tempo della festa” sono davvero una sfida educativa nella cattolica Italia: “Credo che la comunità ecclesiale possa offrire aiuto e spazio a tante famiglie in difficoltà anche economica che altrimenti non riuscirebbero a gestire questa dinamica e a ‘frequentare’ le parrocchie. D’altra parte, devo notare che tante comunità non mi sembrano attrezzate all’accoglienza delle famiglie. E – soprattutto rispetto alla mia esperienza di Chiesa in Nicaragua – ho la sensazione che gli italiani abbiano poca propensione a concepire la comunità cristiana – impegni di volontariato e servizio pastorale a parte – come ‘un luogo di vita’, dove condividere tutto e che diventi un punto di riferimento per tante situazioni. All’inizio, tutto questo mi lasciava un grande senso di ‘arsura’”.
Infine, un’ulteriore suggestione pastorale. A Verona era stata ribadita l’importanza di ridare forza missionaria alla pastorale del lavoro, anche nei nuovi luoghi del lavoro e del tempo libero. Perché vivere cristianamente il lavoro significa – nel concreto e per tutti – trovarsi spesso di fronte a scelte difficili per la coscienza. In questo, ogni lavoratore cristiano dovrebbe avvertire il sostegno della Chiesa. “Invece oggi il singolo non sente un appoggio concreto della sua comunità nella gestione della complessa relazione ‘Chiesa-lavoro-tempo libero’ – conferma Lidia con grande passione, ma senza un filo di polemica -. E se questo triangolo da qualche lato cede, si crea una fragilità che alla fine è pagata sempre e solo dal singolo lavoratore credente”. ( S. Sereni – Mondo e Missione)