Una nuova categoria di profughi

Le persone costrette a migrare a causa dei mutamenti climatici

Roma – Negli ultimi anni sono in continuo aumento i cosiddetti rifugiati ambientali, tutti i profughi che sono spinti ad abbandonare la propria terra d’origine per cause legate direttamente o indirettamente ai cambiamenti climatici. Si distinguono sotto questo aspetto dagli altri migranti che fuggono per motivi prevalentemente socio-politici ed economici, come le guerre, le violazioni dei diritti umani o la fame. Il confine tra queste tipologie di profughi, che spesso si sovrappongono, talvolta è molto sottile causando problemi non soltanto interpretativi.

 
In generale la ricerca di luoghi con condizioni di vita più favorevoli ha sempre provocato fenomeni migratori. Ma, in base a valutazioni scientifiche ormai ampiamente condivise, il mutamento climatico degli ultimi decenni ha accentuato le situazioni di difficoltà ambientali in tutti i paesi caratterizzati da flussi migratori, che sono anche i Paesi più poveri al mondo. Sebbene sia ancora difficile prevedere i tempi e le modalità con cui tali trasformazioni avvengono, i cambiamenti climatici favoriscono l’estremizzazione dei fenomeni meteorologici, quali alluvioni, inondazioni, estrema siccità e conseguente desertificazione, innalzamento del livello del mare ed erosione delle coste, calo della disponibilità di risorse idriche potabili. La crescente frequenza e intensità di tali eventi in molte regioni del mondo provoca la distruzione dei raccolti, annientando l’economia di sussistenza di intere popolazioni. Inoltre, crolli significativi della produzione agricola non esercitano impatto soltanto a livello locale: in un’economia interrelata come quella attuale, hanno ripercussioni su tutto il mercato globale e, come rilevato ormai da diversi anni dalla Fao, fanno lievitare il livello dei prezzi delle derrate agricole aggravando ulteriormente la possibilità delle popolazioni più povere di procurasi cibo.
Laddove il livello di sviluppo di conoscenze non consente di far fronte a questi fenomeni di penuria alimentare con risposte tecnologiche, le cosiddette misure di adattamento (riforestazione, ripristino delle coste, riqualificazione agricola, interventi infrastrutturali, impianti di desalinizzazione) la risposta delle fasce di popolazione in difficoltà per la mera sopravvivenza è l’emigrazione.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni prevedono che, entro il 2050, oltre 200 milioni di persone potranno far parte di gruppi di migranti per fenomeni legati ai cambiamenti climatici. In media sarebbero 6 milioni di uomini e donne che lasciano annualmente le proprie terre. Si stima che nel 2008 questo fenomeno abbia interessato 20 milioni di individui un valore decisamente superiore rispetto ai circa 5 milioni di profughi che sono invece fuggiti a causa delle guerre.
Se anche questi dati rappresentassero stime in eccesso, comunque sarebbero impressionanti e significativi. Spostamenti di milioni di individui hanno un impatto immenso in termini di sicurezza, di rischi sanitari, di difficoltà di integrazione. Le autorità internazionali tendono in realtà a sottostimare questi dati anche perché sussiste un problema giuridico rilevante: lo status di questa categoria di migranti per cause ambientali non è ancora contemplato esplicitamente dal diritto internazionale e non rientra in una categoria giuridica chiara e precisa. La Convenzione di Ginevra del 1951 non ne riconosce in maniera puntuale lo status. Soltanto nel 1985 nell’ambito dell’UNEP, (United Nations Environmental Programme), fu per la prima volta individuata la tipologia di persone che migrano specificatamente a causa delle catastrofi ambientali. In mancanza di una fonte giuridica espressa, è difficile un coordinamento giuridico sovra-nazionale. Di conseguenza gli sforzi finora fatti da singoli Stati per cercare di affrontare il problema della protezione di questi migranti non convergono in una strategia politica condivisa.
Il riscaldamento climatico è causato dalle emissioni di gas serra derivanti prevalentemente dai processi produttivi dei Paesi più ricchi, ma agisce a livello globale e provoca effetti climatici soprattutto nelle regioni tropicali e sub-tropicali, cioè in quei Paesi più poveri che, non avendo un sistema industriale sviluppato, in realtà hanno un minore impatto sull’inquinamento atmosferico. Si crea dunque una situazione paradossale perché i paesi che hanno minori responsabilità subiscono pesantemente le conseguenze delle trasformazioni del clima, d’altra parte i paesi più industrializzati non praticano politiche efficaci di assistenza per gestire le enormi ondate migratorie che le stesse trasformazioni climatiche hanno provocato. Il modello di sviluppo economico finora seguito provoca effetti che sfuggono al controllo anche dei Paesi più sviluppati, deve quindi subire una trasformazione qualitativa ed essere re-indirizzato su un percorso di sostenibilità. Soltanto in questo modo potranno essere affrontate conseguenze gravi come le migrazioni di massa. (di S. Schipani – Osservatore Romano)