Guinea Bissau: un piccolo Paese con grandi problemi

Si è discusso al Cum della situazione con alcuni emigrati

Verona – Si sono ritrovati per discutere insieme della situazione di stallo in cui il loro paese, la Guinea Bissau, versa ormai da troppi mesi. Gli studenti e i laureati della diaspora in Italia, aderenti all’associazione “Asequagui”, hanno dedicato nella sede del Cum (Centro Unitario per la Cooperazione fra le Chiese) una giornata al tema “Africa: quali percorsi di pace e riconciliazione”. Un’occasione per cercare nuove strade d’impegno, proprio in quanto emigrati, a favore del proprio Paese che dallo scorso aprile vive una crescente instabilità politica. Aspirazione più che urgente che, però, ancora si muove a senso unico visto il silenzio permanente che il governo di Bissau mantiene da sempre nei confronti di chi ha trovato opportunità di crescita all’estero. Anzi, ha denunciato il missionario padre Domingos de Fonseca, invitato al convegno anche in veste di testimone del processo di indipendenza, ottenuta nel 1973 dal Portogallo, “la Guinea Bissau, tra i Paesi dell’Africa occidentale, è quello con più emigrati in assoluto. Tutta gente preparata, ma che non ha peso nel proprio Paese, mentre al governo c’è gente semianalfabeta o culturalmente inadeguata”. Padre Domingos ha riassunto ai presenti, tra cui molti giovani studenti guineani, le tappe che hanno portato Amilcar Cabral, figura carismatica ed eroe nazionale, ad organizzare il movimento che poi ha portato alla lotta e alla liberazione dal governo coloniale. Un excursus storico che è servito a spiegare le ragioni dell’attuale instabilità politico-militare, attribuibile al peso che le questioni interne al Paigc, il Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde, ha acquisito nel corso degli anni, lasciando ai margini le urgenze della popolazione. “Il conflitto interno al partito non si è mai risolto e chi governa pensa solo a mantenere il potere – ha proseguito

 
padre Domingos -. Invece di realizzare i principi democratici, il Paese è stato oppresso da un meccanismo di controllo trasversale. In sostanza, la Guinea Bissau non è mai stata democratica e, se nulla cambia, mai lo sarà”.
Il missionario ha quindi invitato i migranti a coinvolgersi per dare una svolta alle vicende del Paese, operando con micro-progetti pensati per accrescere l’educazione civica, la conoscenza dei diritti e dei doveri, e anche sostenendo nuove figure politiche, magari istituendo una specifica scuola di formazione.
“La responsabilità del degrado in cui versa la società guineana non è solo dei militari e del governo – gli ha fatto eco Ildo Correia, giovane avvocato e musicista del gruppo Bumbulum, impegnato in un progetto di riconciliazione attraverso la musica –. La mentalità corrente giustifica la corruzione perché non conosce i propri diritti. E la violenza è uno stile di vita in molte questioni quotidiane: capita spesso che alla radio la gente si scambi minacce di ritorsione contro i vicini o la moglie per questioni ordinarie. Oggi non è possibile avere giustizia grazie al codice, perché tutti quanti,
in qualche modo, sono colpevoli o complici, a partire dall’alto”. Inoltre costruire una coscienza sociale non può prescindere dalla consapevolezza della propria storia, che invece oggi è sconosciuta alla maggior parte della popolazione. “Gli stessi luoghi in cui il processo di indipendenza ha avuto tappe importanti sono oggi in stato di abbandono – ha proseguito Correia – e i giovani non studiano le vicende storiche alla base della loro nazione.
Come si può pensare a un futuro di pace senza sapere come è nata la repubblica?”. Parlare di riconciliazione in questo contesto quindi è molto complesso: le tensioni che dividono etnie e visioni politiche fermentano in una società sfaldata dalla miseria e dalla mancanza di un progetto di sviluppo. Un’evidenza che, come hanno ricordato i relatori, muoveva l’impegno del veronese mons. Settimio Ferrazzetta, primo vescovo di Bissau e che ancora oggi è considerato da molti il secondo pilastro su cui la Guinea Bissau ha potuto nascere. “Povo du Cabral, povo du Settimio”, canta
infatti Fifito, nome d’arte di Filomeno Lopes, giornalista di Radio Vaticana, visiting professor all’università Sapienza di Roma Tre e docente di antropologia culturale al Cum. “Il vescovo
Settimio diceva che prima della colonizzazione la popolazione mangiava lo stesso, anche se con delle difficoltà – ha esordito Lopes –. E in tutti questi anni l’impegno della Chiesa ha permesso di rispondere alle emergenze della gente: tuttora la diocesi riceve container di materiali, cibo, medicine. Però manca la prospettiva del futuro: per costruirla occorre tempo perché si deve partire dal cuore delle persone. Certo, erigere una scuola gratifica più velocemente, ma ciò di cui c’è assoluto bisogno è ascoltare il grido delle persone.
Nei nostri incontri, in cui la popolazione è invitata a confrontarsi liberamente, vediamo una grande partecipazione. Con la musica stemperiamo le tensioni e aiutiamo a recuperare uno spirito di fratellanza e di identità. I nostri connazionali hanno il veleno dentro, aspettano che scoppi una scintilla per esplodere: solo noi migranti, che siamo loro fratelli, possiamo capirli e aiutarli a sminare i loro cuori. Noi della diaspora abbiamo questo compito, perché solo riscoprendo il dialogo è possibile evitare che si ricorra alle armi alla prima tensione. E abbiamo il dovere di recuperare
i siti storici della nostra indipendenza: dobbiamo ricostruire i tasselli della memoria per lasciare al futuro le basi di un’identità costruita sulla pace e il diritto”. (F. Bussola – Verona Fedele)