Clandestini?

In margine ai fatti della Libia e del Nord Africa

Roma – Il mondo sta guardando da diverse settimane una storia nuova di persone e famiglie, giovani e adulti nel Nord-Africa, tra la Tunisia, l’Algeria, la Libia e l’Egitto. E’ una storia di libertà, di voglia di democrazia, di apertura. Una storia che ha messo in cammino migliaia di persone – si parla di 200.000 persone -, in fuga da pericoli, in Paesi dove ormai è scoppiata una guerra civile. Il cammino dei nuovi profughi – come sempre – è anzitutto all’internodelle regioni dei Paesi o da Paese a Paese limitrofo. Un secondo movimento è di coloro che cercano asilo: sono i 600 dei 6000 sbarcati sulle coste siciliane, a Lampedusa, nelle scorse settimane: 5.770 uomini, 200 bambini, 30 donne, di cui 2 gravide. I più cercano un corridoio umanitario per raggiungere i propri connazionali all’estero, in Europa, negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, una sicurezza che solo un volto amico e familiare può dare. Per la maggior parte delle persone che giungono tra noi, nonostante le immagini che ognuno di noi ha visto nei telegiornali di questi giorni, la parola usata è: clandestDi fronte al dramma di un popolo che ha fame, soffre, muore la parola più pronunciata dalla politica è stata: attenzione ai clandestini, respingiamo i clandestini. Mi domando come si fa a chiamare clandestino chi si è mostrato a noi con un’evidente sofferenza e una richiesta d’aiuto come non mai? Come si fa a giudicare clandestino un fratello disorientato in fuga? Come si fa a considerare clandestino il vicino di casa a cui mandi con tranquillità armi, da cui ricevi il petrolio per viaggiare e scaldarti, con cui peschi nel Mediterraneo?
I popoli del Nord Africa chiedono oggi un’attenzione meno interessata, ma soprattutto il riconoscimento di un cammino di libertà e liberazione. Le strade per questo riconoscimento sono solo: l’ospitalità, la protezione, il ricongiungimento familiare, la cooperazione; gli strumenti: casa, lavoro, condivisione.
Chiamare clandestini coloro che in questi giorni ci regalano una pagina nuova del cammino di democrazia in Africa, significa non leggere la storia, chiudersi in un rinnovato campanilismo anziché aprirsi alla cittadinanza globale. Chiamare clandestini i nostri fratelli africani significa dimenticare anche un importante tassello di storia religiosa e culturale che è parte anche della nostra storia europea. Chiamare clandestini chi ha scelto la libertà, come ieri i nostri partigiani – ricordiamo tutti il ‘Diario clandestino’ di Guareschi –, significa che oggi non riconosciamo come eroi i protagonisti di una nuova storia costituzionale e democratica africana. Forse dovremmo essere più attenti all’uso di alcune parole; forse alcune parole come ‘clandestino’ oggi dimostrano di non saper ‘pensare politicamente’ ciò che sta accadendo dall’altra parte del Mediterraneo. (G.Perego)