Emergenza Lampedusa

Diario di viaggio: la vita nell’isola siciliana dove in questi giorni sono arrivati molti cittadini dalla Tunisia e da altri Paesi.

Lampedusa – 26/02/2011 – Girando per le campagne circostanti il CSPA, in cerca di una foto panoramica che possa ben descrivere la vita all’interno dei 4000 metri quadrati della struttura, un uomo urla, intimandomi l’alt. È nervoso. Mi dice di andare fuori dalla sua terra. Gli mostro la macchina fotografica, spiegandogli che sono un giornalista. Tolgo il cappello di lana e la sciarpa, quasi a rassicurarlo: non ho nulla da nascondere. L’uomo mi chiede delle spiegazioni sul perché io stia camminando nel suo terreno. Gli dico che sebbene non ci siano cancelli né recinti a delimitare la proprietà privata, gli porgo le mie scuse. Mi chiede di seguirlo. Lo assecondo. Mi fa entrare nella sua dimora. In un angolo, vicino alla porta, c’è un fucile da caccia. Nonostante si respiri tensione ci stringiamo la mano, presentandoci. Si chiama Pietro, ha 71 anni. Si scusa per la brusca accoglienza, ma mi spiega che ha paura. In questi ultimi giorni ha subito dei piccoli furti, così sta in allerta. Pietro mi dice: “sei giornalista? Allora scrivi che mi hanno rubato 10 piccioni, 2 galli e 3 galline. Inoltre mi hanno preso anche le coperte che avevo steso al sole”. Pietro è un agricoltore, ma è anche un musicista. E per smorzare i toni dell’impatto iniziale, prende la sua chitarra e intona una poesia improvvisata. Pietro ci tiene a dire che lui non è cattivo, ma ha un po’ di timore. Il fucile nell’angolo sembra scrutare come un cane da guardia.
27/02/2011 – A due passi da via Roma, nel cuore di Lampedusa, c’è l’associazione “Askavusa”. Il nome, alquanto evocativo, significa “a piedi scalzi”. Il presidente è Gianluca Vitale, un sognatore sulla trentina che precisa: “sebbene formalmente io sia il presidente, qui non ci sono presidenti, ma soltanto persone che collaborano per un obiettivo comune”. Nel 2008 i componenti di “Askavusa” hanno ideato il “museo dell’immigrazione”. Tutto ha avuto inizio quando un gruppo di amici ha pensato di recuperare dai “cimiteri delle barche” lettere, fotografie, libri, vestiti: testimonianze lasciate dai migranti sui barconi. “Quando andavamo a raccogliere i reperti nelle discariche, nelle quali erano stati trasportati i barconi, la gente del luogo ci scoraggiava dicendoci che il nostro lavoro era inutile”, confessa Annalisa D’Ancona, una delle fondatrici dell’associazione: “in giro si insinuava persino che noi rischiavamo di contrarre malattie rare tra i relitti e i rifiuti. Nonostante ciò, sebbene in quelle discariche, come segnalato da Legambiente, trovavamo di tutto, persino rifiuti speciali non smaltiti adeguatamente, per noi era un bisogno andare lì: volevamo appropriarci di quella fetta di storia che avevamo vissuto, seppur indirettamente”. “Ci sentiamo testimoni infatti di un cambiamento mondiale ed è per questo che ci sforziamo di recuperare e custodire questi documenti” – afferma Gianluca. E lo stesso continua: “quando negli scorsi anni infatti i natanti posti nelle discariche sono stati incendiati noi dell’associazione abbiamo avuto l’impressione che le orme dei flussi migratori stessero per essere carbonizzate, perdute. Ma fortunatamente avevamo già raccolto abbastanza materiale. Abbiamo ancora, infatti, un garage pieno di roba che purtroppo non riusciamo ad esporre a causa delle dimensioni anguste di questi locali”. Il “museo dell’immigrazione” è infatti dislocato nella stanza d’ingresso dell’associazione: circa 4 metri quadrati. I ragazzi di “Askavusa”, attraverso collette tra amici, affrontano tutti i costi d’affitto e manutenzione dei locali. “Nonostante sia difficile sopravvivere, siamo orgogliosi del nostro operato – confessa Annalisa – e siamo consapevoli del fatto che ci sia ancora tanto da fare: il museo necessita infatti di spazi più grandi, di fondi e di una collaborazione con le istituzioni locali e regionali”. (Damiano Meo)