Tra i nomadi per “vivere” il Vangelo

La testimonianza del Direttore spirituale del Pontificio Seminario Maggiore di Roma

 
Roma – In situazioni e contesti diversi la mia vita sacerdotale, come quella di tanti confratelli, ha incrociato la presenza dei Rom nella nostra città. Da viceparroco, nella prima parrocchia, perché nelle vicinanze vi abitavano alcune famiglie di Rom italiani. Poi nell’altra, perché ho cominciato a chiedermi dove vivevano quelle donne che, con i loro bambini, chiedevano l’elemosina di fronte alla chiesa. Andai a vedere. Era la sera della vigilia della festa dell’Epifania del 1993. Portavo dei doni che avevamo raccolto in parrocchia per i bambini: avevo un furgone carico di giochi di altre cose. Era sera ed entrare in quel campo non mi sembrò, all’inizio, affatto rassicurante. Fui immediatamente circondato da piccoli rom ma anche dalle loro mamme. Tutti volevano qualcosa. Dopo un po’ il clima si fece più rassicurante. Fui invitato ad entrare in una baracca, forse quella del capo, del boss. Era un uomo molto cordiale, di mezza età, inanellato e con una grossa catena al collo. Mi offrirono del caffè. Lasciai poi i doni che avevo portato ad alcuni di loro che mi promisero di distribuirli ai bambini il giorno dopo. Anche quando diventai parroco mi trovai più o meno nella stessa situazione: c’erano tre famiglie (mamme con bambini) che sostavano di fronte alla chiesa durante le Messe domenicali. Volevo capire se quello che io vedevo, cioè il bisogno, la povertà, la loro continua richiesta di aiuto, erano una finzione, come tanti dicevano, oppure la realtà. Se viene da me una persona a chiedere qualcosa e poi non ne ha bisogno secondo me è un «povero due volte» e come tale non posso negare il mio aiuto, quello che posso (e solitamente la cosa più necessaria non sono i soldi).
Ho fatto mie le parole che disse un giorno il Cardinale Ballestrero: «Date ai poveri e prima di dare non giudicateli. Prima di avere un sussidio dalla carità pubblica devo presentare un sacco di certificati, ma chi viene a chiedere la carità a me, prete, non deve presentare nessun certificato, deve bastare che mi dica che ha fame. Ci deve essere una spontaneità, una fiducia, un lasciarsi serenamente imbrogliare da qualche speculatore che non manca mai».
Pensare al fatto che mentre io vado a letto nella mia stanza, calda, tranquilla, tante persone e in particolare bambini stanno in situazioni molto, molto diverse dalla mia, non mi ha mai fatto stare tranquillo: bambini come Sebastian, Patrizia, Fernando, Raul, i quattro morti nel rogo di alcuni giorni fa. Poi arrivò il Casilino 900. Non ero più parroco; il servizio a cui la Chiesa di Roma mi aveva destinato era un altro. Non avevo più la responsabilità diretta delle persone di un territorio. Ma da prete e prima ancora da cristiano, non avrei mai e per nessun motivo potuto dire «non spetta a me, non è il mio compito…». Sono passati circa quattro anni da quando entrai per la prima volta al Casilino 900, quasi per caso, invitato ad una festa dei Rom dalla dottoressa responsabile del Servizio di Medicina Solidale di Tor Vergata. Pensai subito che potevo far diventare la mia presenza e il mio incontro con le famiglie un’occasione formativa anche per i seminaristi che accompagnavo nel Seminario: ho ritenuto e ritengo importante per la loro formazione avvicinarli alla povertà, anche a quella più «ostica», fatta di poveri «arrabbiati» per la loro condizione di emarginazione, con colpe e responsabilità altrui ma anche proprie. Ho incontrato tanti bambini e tante persone con le quali abbiamo intrapreso un rapporto umano intenso; ho incrociato tante storie di vita, a volte dure, drammatiche… in alcuni casi tragiche. Insieme ai seminaristi e ad altri volontari abbiamo consolato ed esortato, sostenuto e accompagnato: abbiamo parlato di Gesù. Il Vangelo impone di farsi carico di chi non può. La povertà non è solo economica ma prima ancora culturale, spirituale, mentale e la povertà più radicata è «sommersa»; quello che vediamo è solo la punta di un iceberg. Credo che ci voglia una mobilitazione delle comunità cristiane, delle parrocchie, dei gruppi e di ogni uomo di buona volontà per rispondere con forza e coraggio alla sfida che la povertà ancora oggi impone, facendosi carico, come possiamo, di ogni povertà, a partire dalle famiglie: perché non pensare ad un progetto di affidamento di nuclei familiari in difficoltà? Potremmo cominciare da uno per parrocchia per diffondere sul serio e capillarmente una vera e propria cultura della solidarietà nel nome del Vangelo. (P. Lojudice- Roma Sette)