Emergenza Lampedusa

Diario di viaggio

Lampedusa – 17-02-2011 – Nell’isola più a Sud d’Italia c’è un andirivieni da capogiro. Le strade sono affollate da forze dell’ordine, giornalisti e migranti. Quest’ultimi alloggiano al centro di soccorso e prima accoglienza (CSPA) e nei locali del “Area marina protetta” dove trovano alloggio alla bell’e buona sotto scrivanie, per terra, su un pianoforte a coda e sull’ultimo gradino della scala che porta al primo piano. Vicino ad anfore secolari, chiuse in apposite vetrine, ci sono panni stesi e piatti di plastica sparsi. Alcuni immigrati vagano per le strade per ingannare il tempo, che sembra un’eternità se trascorso interamente nelle strutture messe a disposizione dal comune. Le donne alloggiano lontane dal centro: a “Cala Creta, nelle casette bianche di un residence privato che guarda il mare da una scogliera ripida e suggestiva. Le donne sono circa venti. Nei bar del centro trasmettono il festival della canzone più antico della tv tricolore. I tunisini sembrano interessati e ascoltano senza fiatare. Del resto il loro mito dell’Europa si fonda anche su quanto hanno visto in tv. E come Sanremo anche Lampedusa è trepidante di attese e speranze: la speranza di vincere un futuro e l’attesa di scoprire come andrà a finire. E mentre all’Ariston si applaude Benigni, al CSPA  ci si accovaccia su materassi di fortuna, qualcuno dorme anche per terra. Su quella terra che, da gennaio a febbraio del 2011, ha accolto le orme di circa 5300 immigrati. “Clandestini”: gente che guarda l’orizzonte e sfida il mare. Quel mare che tanto accomuna quanto divide. Quel mare che tanto accoglie quanto respinge. Quel mare che da giugno 2007 è stato una roulotte russa per 44 mila nordafricani che pensavano che Lampedusa fosse la porta dell’Europa. Il numero dei migranti in questo comune dell’agrigentino ha sfiorato negli ultimi giorni quello dell’intera popolazione: 6300 abitanti, gente di mare e di turismo. Questa notte il maestrale gonfia l’acqua a diventare onda. E nonostante si ipotizzino nuovi sbarchi, con questo mare che inghiotte le stelle nessuno riuscirà mai a raggiungere il porto siciliano. Così l’allarme accoglienza questa notte sembra allentare l’ansiogena morsa. E come i barconi sequestrati sembrano riposare a terra, accovacciati su un fianco anche il piccolo comune mediterraneo si abbandona al sonno.
18-02-2011 – La pioggia batte ed il vento fischia. Ma nonostante la giornata non invogli ad uscire moltissimi ragazzi nordafricani popolano le strade. Forse voglia di libertà, forse bisogno di scoprire il “nuovo mondo”. Con pezzi di nylon a mò di k-way si dirigono verso il centro della cittadina marinara: si riuniscono nei bar. E chiacchierano con tranquillità fin quando, a metà giornata, il sole si fa strada tra il grigiore. Al CSPA arriva un bus. Si tratta di uno dei frequenti trasferimenti che hanno caratterizzato quest’ultimi giorni. Le altre sedi sono: Gorizia, Torino, Modena, Bologna, Foggia, Bari, Brindisi, Crotone, Lamezia Terme, Trapani, Caltanissetta, Siracusa, Porto Empedocle e Pozzallo. Kamel, un ragazzo sulla ventina, mi fa vedere il suo numero: è il 1235. Oggi non tocca a lui. Stamane partono i numeri fino al 600. Questa sorta di matricola è stata assegnata principalmente in base all’ordine di arrivo, ma si è tenuto conto anche di particolari esigenze: due diabetici e altrettanti tossicodipendenti hanno avuto priorità. Nell’aria si respira una strana voglia di attesa, una sorta di proiezione verso un futuro ignoto, un domani sperato. Kamel mi chiede se gli permetteranno di andare in Francia. Rispondo che non lo so. E lui, con tono scherzoso, mi fa cenno di scattargli una foto. Lo assecondo, mostrandogli il suo ritratto sullo schermino della macchina fotografica. Allora Saif ad-din, che prima mi scrutava a distanza, con la giusta diffidenza, prende parte al discorso e mi mostra il suo cellulare: custodisce la foto dei suoi genitori. Gli chiedo se vuole ritornare a casa, ma mi risponde di no, perché anche qui è in buona compagnia: è partito con suo fratello Hamed. Saif ha 23 anni viveva a Tunisi ma la sua famiglia risiede a Zarzis: cittadina in cui lui è nato e da cui qualche giorno fa ha preso il largo. Mi racconta di essere salito sul barcone giorno 13 alle 14 ed è arrivato l’indomani alle 18. Erano circa 360 sullo stesso natante. Hanno pagato 2000 dinari a testa, ma a lui e suo fratello hanno fatto lo sconto – dice accennando un fiero sorriso – 3000 dinari per entrambi. Il ragazzo mi mostra un video in cui lui ed il fratello si tolgono le scarpe, entrano in acqua e raggiungono la barca sulla quale prendono il largo. Nel filmato entrambi appaiono entusiasti e cantano “nadhabu li Italia, aishu isha ènya”: “andiamo in Italia, dalla bella vita” – è il significato della filastrocca improvvisata. Durante la conversazione un paio di ragazzi ci passano accanto e parlano con tono infastidito, Saif ribatte. Gli chiedo che succede. E lui mi spiega che è stato rimproverato per non aver rispettato i patti: si erano infatti promessi di non mostrare nessuna prova del viaggio. Ma Saif mi spiega che non è un problema, perché lui non sta facendo nulla di male: in fondo sta semplicemente raccontandomi la sua storia. Riprendiamo a scambiare due chiacchiere. Gli chiedo perché abbia deciso di partire. Mi risponde schiettamente che sogna la libertà. Così ribatto che in Tunisia è cambiato il governo, il dittatore è caduto. Lui controbatte: “non è cambiato nulla, fidati”. Mi mostra un’altra foto, dice che è un suo amico: ha 27 anni e si chiama Mohammad Misleti. Gli chiedo se è partito anche lui. Saif mi risponde che è stato ucciso dalla polizia lo scorso gennaio a Intilaka. “Hai capito perché sono partito?” – ribatte, congedandosi con un “as-salam”. È ora di pranzo. Al CSPA servono una frittata, in vaschette di polistirolo sigillate da una pellicola trasparente. Il maiale è bandito dalla mensa – spiegano in cucina, nel corso di un tour “confezionato” per la stampa. Dopo il pasto, nel primo pomeriggio, un’inaspettata partita di calcio esplode nel campetto che costeggia il cosiddetto “cimitero delle barche”: il deposito dei natanti sequestrati. Ma a sfatare qualsiasi brutto presagio i ragazzi nordafricani giocano di gusto, non curandosi del fango che imbratta i loro indumenti. Qualcuno gioca persino a piedi scalzi. Vicino gli spogliatoi invece un ragazzo si apparta. Si toglie le scarpe, si lava il viso, i denti, i piedi e le braccia: si tratta dell’abluzione rituale prima della preghiera. Così il ragazzo schivo, in un angolino, professa il suo credo. La partita nel frattempo continua, nonostante ci siano soltanto due o tre spettatori. Con uno di questi scambio un paio di battute. Si chiama Adnan, ha 28 anni. Mi chiede cosa stia facendo a Lampedusa. Gli spiego che faccio foto. Allora mi fa cenno di seguirlo, lasciandomi intuire che ha qualcosa di interessante da farmi vedere. Mi conduce verso un squarcio nella rete che delimita il campo da calcio dal “cimitero delle barche”. “Vedi, sono venuto con questa qui” – un natante di circa 10 metri che prende il nome di “Mohammad Màlik”. Davanti al “suo” barcone Adnan si ferma e mi fissa: “da parte mia devi dire grazie ai lampedusani e all’Italia. Grazie per la vostra buona mentalità”. Adnan si guarda attorno, fa un giro. Il “cimitero delle barche” è un immondezzaio, ci sono: pozzanghere di gasolio, scarpe e posate, conserve e salvagente, indumenti e asciugamani. Dopo pochi minuti ritorniamo al buco nella rete ed eccoci nuovamente nel campo da gioco. Tra fango e speranza.  
19-02-2011 –  L’edicola di via Roma ha un telefono a monete, gettonato dai migranti. Ridha e Hadi mi chiedono cinquanta centesimi, perché gli unici soldi che gli sono rimasti sono un euro e ottanta, mi spiegano che servono per telefonare in Tunisia. Glieli do. Ma due anziani del luogo mi rimproverano immediatamente. Mi dicono che a tutti i migranti stanno finendo i soldi quindi se li abituiamo all’elemosina creiamo un circolo vizioso. Nel frattempo si avvicinano Nabel e Hamza. Anche loro hanno bisogno di soldi: mi chiedono se sono interessato ai filmati della partenza realizzati col loro cellulare. “Venti secondi, venti euro”. Nel frattempo Hadi e Ridha escono dall’edicola. Hanno alcune domande per me. La prima è come ricevere i soldi che i familiari vorrebbero spedire. Gli dico di rivolgersi al centro di accoglienza. Mi rispondono che i mediatori li ascoltano ma non hanno soluzioni alle loro domande. L’altro quesito riguarda la politica: i familiari gli hanno detto che il governo francese è ben disposto ad accoglierli. Mi chiedono conferma. Gli dico: perché no? E Ridha fa un’espressione di titubanza perché, a suo avviso, la Francia non ama gli arabi sin dai tempi del colonialismo. Le supposizioni di Ridha mi spiazzano. Voglio saperne di più. Gli offro un caffè. Riprendo il discorso al bar chiedendogli perché mai voglia andare in Francia se ha questa brutta percezione. Mi risponde in maniera pragmatica: “dato che conosco il francese sarà più facile trovare lavoro”. Ridha è un meccanico, mentre Hadi è un autista di camion: hanno entrambi meno di trent’anni. Ridha è barbuto e ha gli occhi verdi. Hadi ha invece un bel baffetto che gli dà l’aria da dongiovanni. Nel tirar fuori le sigarette dalla tasca a Ridha cade un tesserino. Lo raccoglie da terra e lo mette sul tavolo. Si tratta di un cartoncino bianco rettangolare, con dei timbri. Si tratta del “ticket pasti”. E dietro c’è la matricola. Ridha è il numero 1943. A tal proposito domando ad entrambi se al centro si mangia bene. Fanno una strana faccia. Gli chiedo cosa significhi quell’espressione e Ridha inizia ad argomentare. “Sempre pasta, sempre spaghetti”. Per smorzare gli dico che dovrebbero essere contenti perché in Italia questo piatto è un culto. Loro ribattono che quella che mangiano non è pasta, ma “chewing gum”. Hadi inoltre ha qualcosa da ridire sull’acqua: una bottiglia da due litri al giorno per due persone non sempre basta. Mostrando il pacco di sigarette Hadi mi spiega che il centro fornisce anche queste. E mi chiede di indovinare quante ne danno a persona. Mi butto: venti ogni due giorni. Hadi scuote la testa e alza l’indice ed il medio: due sigarette al giorno per ogni fumatore. E invece l’igiene? Ridha risponde che l’acqua con cui fare la doccia è sempre fredda. Inoltre il numero dei wc è insufficiente. Ci sono, facendo i calcoli con le dita, soltanto 35 gabinetti per 1500 persone, ovvero ce n’è uno per ogni 40 persone. Inoltre nessun telo da doccia, ma una sola tovaglietta da viso a settimana. Nel frattempo sui tavolini del bar circolano fogli A4 a nome del comitato “SOS Pelagie”. I membri del comitato, a nome di tutti i cittadini lampedusani, chiedono all’Europa fondi immediati per fronteggiare i problemi strutturali legati all’emergenza umanitaria. Ma nelle richieste compaiono anche finanziamenti di vario genere per lo sviluppo del territorio: una sorta di pentolone in cui bolle una minestra dolceamara. Nel frattempo Nabel e Hamza entrano nel bar, con un sorriso smagliante: sono riusciti a “piazzare” i loro filmati su una tv straniera. Così si siedono con nonchalance e ordinano  “deux express, s’il vous plaît”.     (D.M)