“Rom, da sfatare tanti luoghi comuni”

Intervista con l’autore del volume “Non chiamarmi zingaro”,

Roma – Dei Rom e dei Sinti (non chiamiamoli zingari) abbiamo da sempre due opinioni, entrambe sbagliate: tutti straccioni, oppure intrisi di colore romantico. Pensate al rossiniano «stuol di zingarelle » del Turco in Italia . Un compiacimento che affiora ancora di tanto in tanto. Prevale, però, la visione degli zingari «brutti, sporchi e cattivi» che a Pino Petruzzelli, attore e regista, Direttore del Centro Teatro Ipotesi di Genova, non piace. Petruzzelli ha così deciso, diversi anni fa, di mettersi sulla strada dei Rom per capirli. Per anni ha visitato i loro campi, ha stretto loro la mano, e ne ha raccolto le storie. Tutto è finito in Non chiamarmi zingaro, edito da Chiarelettere (pagine 228, euro 12,60), che è il taccuino vivido e appassionato di questo singolare viaggio.
 
 
Cosa l’ha spinto a questo nomadismo culturale?
«Mi sembrava interessante capire come mai di questo popolo si conosca soltanto una sfaccettatura negativa: i furti, il nomadismo… Ho voluto comprendere cosa c’è dietro, partendo da una frase di Eduardo De Filippo. Diceva: ‘Un uomo vivo non ruba per morire, ma ruba per vivere’. Me ne sono occupato per circa cinque anni, girando l’Italia e l’Europa, per conoscere questo mondo così sconosciuto. In libreria c’era e c’è ancora poco, se non qualcosa per gli addetti ai lavori. E girando ho scoperto tante cose».
 
Chi sono, allora, gli zingari?
«Un popolo né migliore né peggiore di tutti gli altri popoli che colorano questo nostro mondo. Hanno problemi con cui devono confrontarsi quotidianamente. Vivere in un campo, per i sinti o per i rom italiani, non è semplice. Non è un campeggio, vivere venti anni in situazioni così estreme è drammatico. In Italia c’è il grande equivoco che i rom siano nomadi geneticamente, e infatti siamo l’unica nazione al mondo che ha messo in piedi i campi nomadi. In tutto il resto del mondo vivono in appartamenti, e solo se sono estremamente poveri finiscono in una baracca, come finiscono così anche i non rom poveri delle periferie delle grandi metropoli. Forse anche in buona fede si è pensato così. Negli anni ’70 si diceva: sono nomadi, quindi, facciamo un campo per loro…».
È la condizione di disagio in cui vivono che crea la diversità…
«Sicuramente. I rom hanno una storia molto simile a quella del popolo ebraico, ma nessuno si sognerebbe di dire che un ebreo è un nomade. Invece, nel caso degli zingari, una storia di continue persecuzioni ha creato il nomadismo, a iniziare dal Cinquecento quando – mi riferisco alla Serenissima – si poteva uccidere uno zingaro senza scontare alcuna pena».
 
I Rom entrano nella storia, ma quella degli altri. Sembra un popolo senza storia: non ha avuto la possibilità di scriverla?
«Hanno una storia tramandata in maniera orale. La nostra è una cultura che ha scritto, così sappiamo soltanto quello che noi abbiamo scritto di loro. Oggi sarebbe importante conoscere meglio questa loro storia e la loro cultura per provare a vivere insieme nel rispetto di regole reciproche. Su questo dovremmo lavorare tutti, e naturalmente anche i Rom».
 
Lei non è zingaro. Usando una loro espressione è un ‘gagé’. Non crede che la parola sia discriminante almeno quanto la parola zingaro? C’è anche da parte loro una forma di discriminazione?
« Gagé è l’equivalente del nostro zingaro. Effettivamente racchiude tutto ciò che non va bene, in un’accezione abbastanza negativa».
 
Da dove nasce il solco tra noi e loro, o, se preferisce, tra loro e noi ‘gagé’?
«Le radici sono nel Cinquecento. Il fatto che si spostassero ha creato grossi problemi. La nostra società invece si fa sedentaria, sicché loro, con i continui spostamenti, rappresentano un problema. Le persecuzioni iniziano proprio in questo periodo. Vivono in un continuo terrore verso il mondo gagé . Nutrono la stessa paura nei nostri confronti. E hanno anche buone ragioni per temerci. Guardando indietro nella storia, gliene abbiamo fatte di tutti i colori: da ultimo i campi di sterminio nazisti in cui sono morti a migliaia».
 
Prenda De André: «Con le vene celeste dei polsi anche oggi si va a caritare ». È il verso di una sua bella canzone. Non crede però che continui ad offrire un’immagine romantica del mondo rom? Caritare rientra nella cultura?
«No, certo, ma caritare è ben diverso da rubare. Anche il furto va capito. Chi pensa che sia facile per un giovane rom trovare un lavoro anche da cameriere in un bar sbaglia. Diventa difficile venir fuori da una situazione complicata, come un campo rom. Ciò non giustifica il furto, è solo un voler capire cosa c’è dietro».
 
Lei, nel suo nomadismo culturale, ha incontrato tanta gente che si è integrata. Come è possibile l’integrazione?
«In Italia ci sono tantissimi rom e sinti che ci sono riusciti, nascondendo però la loro origine, per non essere discriminati. L’integrazione comincia con i bambini, e nelle scuole i bambini rom e gagé giocano tra loro. Scuola però non significa entrare in un campo e imporla. Va capito un meccanismo: agli occhi di una società in cui il padre rappresenta la massima autorità, l’imposizione della scuola va a minare questo suo prestigio. Un approccio sbagliato ha soltanto un risultato: quel bambino non dovrà andare a scuola. Non si può da elefanti entrare in una vetreria. In molti, comunque, frequentano la nostra scuola. In tanti la lasceranno dopo le medie, ma questo avviene anche tra i ragazzi… gagé ».
 
Lei, da autore di teatro, ha preso qualcosa dai Rom?
«Il mio lavoro è nomade: stare qui e domani là, oppure prendere da questo o da quell’autore. Ho imparato che il bello di tutti i lavori sta nel farli. Nell’arte conta più la persona, l’autore dell’opera, che il risultato finale. Questo a me piace: è un rispetto dell’essere umano, perché non tutti i musicisti e i commediografi diventeranno Mozart o Shakespeare. Però hanno vissuto come se lo fossero. Gli zingari la pensano così» (G. Ruggiero – Avvenire)