I 20 milioni di emigrati che unirono l’Italia

In occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia occorrerebbe ricordare i 20 milioni di italiani emigrati che hanno contribuito a costruire il Paese molto di più di quelli che sono rimasti

Milano – C’è qualcosa che è stato notato più volte a proposito delle foto di emigranti: i corpi, i volti, gli atteggiamenti, le posture degli italiani fotografati ad Ellis Island e degli albanesi arrivati sulle coste italiane, ma anche dei maghrebini, dei curdi, dei bengalesi hanno una impressionante somiglianza. E se una facile retorica potrebbe spiegare che si tratta di situazioni simili, di una comune emergenza la cosa che rimane da spiegare è proprio perché questa somiglianza si è stampata così fortemente nelle facce, nelle mani, nelle espressioni. Pasolini avrebbe detto che si trattava di gente che aveva ancora un volto, che si trattava di un’umanità che non si era conformata a dei parametri di ottusità da benessere. Non so se avesse ragione, ma è vero che nelle facce di chi scavalca un oceano o un mare in cerca di fortuna si legge una tensione ed una apertura allo stesso tempo che hanno qualcosa di impressionante. Si legge la storia nelle facce delle persone, come se queste diventassero da sole narrazione. Poi ovviamente c’è una asciuttezza, una essenzialità di corpi non abituati agli eccessi del benessere.

Gianni Amelio aveva rimarcato la cosa nel film “Lamerica” per la somiglianza tra albanesi e italiani. Quelle facce contadine somigliavano troppo alle facce dei nostri braccianti di trenta, quarant’anni prima. Per una mostra organizzata qualche anno fa per le Cabriniane a Roma, sul tram numero 8, avevamo messo a confronto le foto degli italiani arrivati ad Ellis Island con quelle degli immigrati arrivati da poco sul nostro territorio. Alcune foto, come quelle dei bambini italiani impiegati nei bowling di New York a rimettere a posto i birilli, erano impressionanti e facevano coro con le foto di fronte di bambini cingalesi o di bambini rom.
Viene quasi da pensare che il benessere sia un modo con cui alcuni popoli riescono a travestirsi al punto tale da dimenticarsi chi erano. C’è un modo di distanziarsi dai corpi dei nonni che venivano dal campo o dalla montagna, dalla pesca o dall’artigianato, per allontanare la storia che ci ha portato fin qui. L’Italia è un Paese che ha particolarmente praticato l’oblio. In occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia occorrerebbe ricordare i 20 milioni di italiani emigrati che hanno contribuito a costruire il Paese molto di più di quelli che sono rimasti.
E occorrerebbe ricostruire tutta quella generazione di meridionali che hanno costruito il mondo straordinario della Torino e della Milano operaia, quella particolare maniera di muoversi e di parlare che fino a qualche anno fa era ancora così evidente. C’era una concretezza ed una umanità tutta meridionale in quei nuovi accenti lombardi e veneti, in quel modo di appropriarsi dell’accento piemontese per scandire la propria nuova condizione. È solo di un Paese precipitato nell’ignoranza come il nostro l’incapacità di ammettere la straordinaria ricchezza di quest’opera di creolizzazione. Le foto degli emigranti e degli immigrati ci aiutano a capire che tipo di geografie viventi sono i corpi in transito, che tipo di capolavori di sintesi sono le narrazioni che hanno sede nei petti e nelle gambe degli emigrati. E ovviamente non è finita: solo due anni fa girando un documentario sui miei concittadini di Terrasini emigrati nei mari freddi a nord di Boston mi meravigliavo di facce che avevo lasciato bambine quarant’anni prima e di come erano state scolpite dal mare, dalla lingua straniera appresa, dai modi diversi e però continui con la propria origine. Ivan Illich parlava di ’embodiment’, di incarnazione: gli emigrati sono l’incarnazione della nuova geografia del mondo. (F. La Cecla –Avvenire)