Sisters straniere nella diocesi di Vicenza

Quest’anno per celebrare la giornata della vita consacrata, il settimanale “La Voce dei Berici ha scelto di fare un piccolo excursus tra le presenze straniere nella diocesi”.

Vicenza – “Ho sempre voluto fare qualcosa per i poveri, soprattutto per i bambini. A un certo punto della mia vita, ho sentito qualcosa dentro. Quando ho visto le mie sorelle, mi è piaciuto tanto il loro vestito. Oggi sono suora e felice”: a parlare così è suor Miriam, 35 anni, della congregazione delle Dimesse Figlie di Maria Immacolata, del Kerala (lo stato indiano con la più alta presenza di cattolici: 4,8 milioni), in forze alla parrocchia dei Carmini a Vicenza. Assieme a lei, suor Emma, anche lei 35 anni, africana, dei dintorni di Nairobi. “È una bella esperienza per me essere in Italia, poter conoscere un’altra cultura, vedere dov’è nata la nostra congregazione. Qui mi hanno fatto sentire subito a casa. Certo la lingua era difficile, e poi che freddo, ma sono stata accolta bene dalla comunità. Ma tornerò presto in Kenya; seguo le ragazze che si preparano per la vita religiosa. Sono le donne che salveranno l’Africa”.

 
Suor Ermelinda, vicentina, è la responsabile della congregazione: “Le sorelle straniere vengono qui per trascorrere un periodo, per arricchirsi, ma la loro destinazione finale resta la loro patria. Le indiane solitamente al loro Paese sono impegnate nella scuola e nella parrocchia; le africane sono più in contatto con le famiglie e lavorano nei dispensari. Qui, siamo inserite nella vita di parrocchia, seguiamo la liturgia, facciamo servizio agli anziani, attività di volontariato… Il tutto cercando di mediare con la loro cultura”. Questa dei Carmini è una piccola comunità internazionale. Ed è la direzione verso la quale sta andando l’evangelizzazione del terzo millennio. Cresce il numero di preti e religiosi/e che vivono e operano nel nostro Paese. E la diocesi di Vicenza non è da meno. Tanto che l’ufficio diocesano per la vita consacrata, in collaborazione con l’Usmi, ha distribuito un questionario alle suore straniere per conoscere il livello di integrazione e le eventuali difficoltà. E in aprile è in programma un incontro per tirare le somme di questa compresenza, specchio della società multietnica in cui è inserita.
“Dai racconti, sembra che problemi particolari non ce ne siano, né con le comunità, né con le consorelle italiane – dice monsignor Giuseppe Bonato, vicario diocesano per la vita consacrata -. Ma questo non ci basta. È necessario approfondire, capire qual è la qualità di vita delle nostre sorelle straniere. Come cambia la preghiera? Come cambia la cucina? Quali sono le modalità di accoglienza? E come va la convivenza tra persone cresciute in contesti culturali totalmente diversi?”
Il mondo è in casa. E, se una volta l’Italia mandava missionari in giro per il mondo, oggi sembra avvenire il contrario. Che in Occidente le vocazioni siano in calo non è un segreto, che in Romania in qualche momento si sia provveduto a qualche “arruolamento forzato” anche questa è cosa nota, così come non è un segreto che l’India sia un Paese dove le vocazioni fioriscono. Ma è riduttivo analizzare il fenomeno solo dal punto di vista dei numeri. “Da noi il senso del divino è molto sentito, indipendentemente dalla religione – racconta suor Shilly, indiana, responsabile della congregazione delle suore Francescane Figlie di Nazareth, di stanza a Cresole (tre suore indiane) e a Villa San Carlo di Costabissara (una italiana e due indiane) -. Da noi la religione, quale che sia, fa parte della vita; c’è una profonda appartenenza. Siamo costantemente concentrate sulla fede. Non usciamo mai di casa senza prima un momento di preghiera”.
Un aspetto insito nella cultura indiana, dove le strade sono costellate di altarini e statue di divinità. Suor Shilly, mai avuto problemi di integrazione? “No, anche perché il nostro collante è la congregazione. Se c’è coesione, spirito di adattamento, puoi andare ovunque, a dispetto anche del cibo. Ma gli altri non mi devono capire come indiana, ma come persona”. “Le sorelle straniere sono molto aperte, molto disponibili a coinvolgersi nella comunità nella quale sono inserite – afferma suor Francesca Mazzarelli, dorotea, delegata Usmi -. A Cresole, per esempio, hanno scelto di devolvere le offerte che arriveranno dalla giornata per la vita consacrata alle famiglie maggiormente colpite dall’alluvione”. Di sicuro, preti o suore che siano, gli stranieri sono più abituati alla vita “internazionale”.
Padre Stefano Dogodzi, della congregazione Verbita di Vicenza, celebra la messa per i nigeriani la domenica alle 13 nella parrocchia di San Pio X. “Sono qui da tre anni. Io sono ghanese, ma in comunità siamo in cinque di varia provenienza. Sono abituato agli altri; in Ghana vivevo con un filippino e un polacco. Seguo gli immigrati di lingua inglese”. Il lavoro con gli immigrati è un altro degli aspetti importanti del servizio svolto da religiosi e religiose stranieri. In Italia ci sono 3.000 preti stranieri, di cui 500 sono studenti preti; 3.200 sono le religiose. I sacerdoti per lo più provengonoda Africa e America Latina; le suore sono filippine, indiane, molte rumene e un buon numero albanesi. Dei 3.000 preti, almeno un migliaio opera con gli immigrati. A dirlo è monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes. “È un fenomeno interessante e in forte sviluppo. In Italia ci sono diversi sacerdoti rumeni, alcuni ucraini, e dodici cinesi; questi ultimi seguono la crescita delle comunità cattoliche cinesi (i cinesi nel nostro Paese sono 250mila), presenze importanti a Treviso, Milano, Roma, Firenze, Prato. Albanesi e cinesi si accostano ai sacramenti di iniziazione cristiana. È un dato significativo visto che stiamo parlando di due Paesi maoisti. Vuol dire una nuova attenzione all’evangelizzazione di popolazioni non propriamente di matrice cattolica”. Oggi sempre di più gli istituti religiosi accolgono per periodi temporanei, di formazione, per poi far rientrare le persone nei Paesi di provenienza, per non impoverire le loro Chiese. E anche perché a volte il benessere gioca brutti scherzi. “Il benessere da noi è una tentazione forte. Già scegliere la vita ecclesiastica per chi abita nel Sud del mondo è uno status sociale.
Come era da noi cinquanta, cento anni fa – dice padre Luigi De Candido, dei Servi di Maria di Monte Berico -. Ma da noi il benessere è qualcosa che va oltre, è una voragine che ti avvolge. Perciò cerchiamo di mettere in guardia i nostri studenti”. “In passato si sono verificati casi di sorelle straniere non più rientrate al loro Paese, alcune addirittura finite sulla strada – interviene suor Bianca Rosa Zocca della Dorotee della casa di preghiera ‘San Giuseppe’ in Vicenza -. Per questo i Vescovi hanno posto delle restrizioni. Per quanto ci riguarda, vedo che le nostre sorelle tornano volentieri a casa. Portano là quanto hanno appreso da noi, cercando di fare mediazione con la loro cultura d’origine. L’esperienza qui per loro è arricchente”. Le suore Maestre di santa Dorotea da tempo si sono votate all’internazionalità, avendo missioni in quattro continenti. “Vivere in una comunità internazionale comporta difficoltà per l’apprendimento della lingua e l’inserimento culturale, ma è positiva perché costruisce relazioni solide e mature – continua suor Bianca Rosa -. A casa ‘San Giuseppe’ siamo in dodici: sei italiane, una ivoriana, due colombiane, due polacche, una brasiliana, con diversità di età, cultura e formazione. Il risultato è l’arricchimento reciproco, senza annullare le peculiarità della cultura altrui. Al di sopra di tutto, a unirci è la cultura madre, che è il vangelo, e la carità, che è il nostro carisma. In altri anni abbiamo avuto sorelle ecuadoriane, rumene, ucraine, dalla Terra Santa, dall’India, dalla Siria… Nella nostra congregazione viviamo l’esperienza dello scambio, a seconda delle disponibilità: l’Ecuador dà suore al Messico; il Brasile all’Italia, alla Spagna, all’Ucraina.
Da noi vengono a fare un anno di formazione che le prepara alla professione perpetua, oppure a studiare per acquisire titoli da spendere nei loro Paesi. Qualcuna di loro preferisce fare la professione perpetua qui. Per esempio, in Costa d’Avorio, la cerimonia comporta una grande festa, con spese elevate che devono essere sostenute dalle famiglie. Perciò molte preferiscono concludere qui il loro percorso, dove le cerimonie sono più sobrie ed essenziali. Per quanto riguarda Paesi come la Colombia o anche la stessa Costa d’Avorio, dove per motivi politici o religiosi, la situazione è conflittuale, lì le nostre suore sono spesso in pericolo, a volte minacciate, i loro familiari colpiti. Proprio in quei Paesi si esprime la loro generosità, la forza e l’efficacia del nostro carisma, che è andare anche a rischio della vita”. (R. Gobbo – La Voce dei Berici)