Sospesi a Calais, Francia

Migranti verso l’Inghilterra: un odissea all’ultima tappa

Calais – Sono sospesi fra due mondi. Da una parte, oltre la Manica, c’è l’Inghilterra. Alle loro spalle, i Paesi di provenienza: l’Afghanistan, l’Iraq, il Sudan, la Somalia, l’Eritrea. Nei dintorni di Calais, la cittadina dell’estremo nordest della Francia, un migliaio di migranti irregolari attende il momento per attraversare quei 34 chilometri di mare, sferzati dal vento gelido che rimbalza sulle scogliere di Dover. Il metodo è sempre lo stesso: nascosti nelle pance dei Tir, a bordo dei traghetti. Ma nel frattempo vivono accampati, con mezzi di fortuna. Alcuni sotto i ponti dei canali, altri nei boschi attorno alla città, altri ancora nelle vecchie fabbriche abbandonate. Qualche parola in italiano, qui, la masticano tutti. Perché tutti, prima di arrivare in questo estremo confine nord dell’Unione Europea, in Italia ci sono passati.
Come Mahmoud, sbarcato nel 2007 a Porto Empedocle insieme ad altri 200 tra somali ed eritrei partiti dalla Libia. Lui viene dall’Asmara e ha 22 anni. In uno spiccato accento siciliano ci racconta la sua esperienza di cuoco in un ristorante di Cassibile, in provincia di Agrigento, dove è vissuto per due anni e mezzo, lavorando in nero. Ma il suo sogno era un altro. Il suo tormentone preferito è Voglio andare in Inghilterra, ritornello di un pezzo rap di Fabri Fibra che la radio trasmetteva nei pomeriggi di lavoro. E l’italiano lo conosce alla perfezione anche Mohamed, 19 anni, arrivato dal Ciad. Lui in Europa ci è entrato attraverso il passaggio a sudest. Dalla Turchia è sconfinato in Grecia poi ha attraversato l’Adriatico nascosto in un tir per sbarcare al porto di Ancona. A Calais vive in uno squat che tutti chiamano l’Africa House, un gigantesco mobilificio abbandonato, divenuto il disperato rifugio di alcune decine d’africani. Quasi ogni mattina vi fa irruzione le Compagnies Républicaines de Sécurité,  il reparto celere della Police nationale,   per controllare i documenti e portare in caserma i sans papier che non riescono a nascondersi in tempo. “I poliziotti vengono qua e danneggiano le poche cose che abbiamo – accusa – imbrattano i nostri vestiti di olio e persino di urina, lanciano gli zaini sulle architravi inaccessibili della fabbrica”. La vecchia Africa House, quella storica, sorgeva a pochi minuti dal centro di Calais. È stata sgomberata lo scorso anno dalle Crs. Ora eritrei, etiopi e somali dormono qui, su materassi improvvisati tra la sporcizia e la polvere o su soppalchi fradici che potrebbero schiantarsi da un momento all’altro. I sudanesi, una cinquantina, vivono in alcune case abbandonate, poco distanti.
“Qualche giorno fa – racconta Mohamed – uno di loro è finito in ospedale dopo essere stato picchiato da sette agenti”. In Italia Mohamed è vissuto due anni, cercando di procurarsi da vivere senza riuscirci. Per otto mesi è rimasto a dormire nei capanni tra le grotte che costellano la spiaggia del Passetto di Ancona. Poi ha puntato verso la Francia. “In Italia si sta bene solo se hai soldi e lavoro, altrimenti sei abbandonato a te stesso”, ricorda.
Sono centinaia gli afgani e i curdi, fermi a Calais, che hanno seguito la sua stessa rotta. Conoscono le città italiane di Bari, Brindisi, Ancona, Venezia, Bologna meglio di Marsiglia, Parigi o Lione. Molti di loro sono rifugiati politici, come Mohamed e Mahmoud, ma continuano a sentirsi braccati. La polizia da queste parti non dà tregua. Le irruzioni, i controlli, gli sgomberi sono continui. L’unico momento di pace sembra essere quello dei pasti, distribuiti dall’associazione Salam, due volte al giorno. Sotto le tettoie in vetroresina, immortalate dal film Welcome di Philippe Lioret, si assiepano circa duecento persone. A Calais e nella vicina Dunkerque, al confine con il Belgio, qualche anno fa erano arrivati ad essere migliaia. Oggi, stando a quanto riporta il quotidiano  The Telegraph , sono in mille a nascondersi sulla costa della Francia del nord e ogni settimana circa in 50 riescono ad arrivare in Inghilterra. Secondo quanto dichiarato dal direttore della polizia di frontiera inglese Carole Upshall, nel 2009 le persone fermate mentre tentavano di attraversare illegalmente la Manica sono state 29 mila e i camion controllati circa un milione, con l’ausilio di unità cinofile, scanner, rivelatori di anidride carbonica e di battito cardiaco.
Calais è la valvola migratoria d’Europa. Lo è ormai da oltre dieci anni. Un confine interno all’area Schengen, così lontano eppure così simile alle frontiere che cingono la ‘fortezza’ a sud. I primi migranti sono arrivati alla fine degli anni Novanta e ad ogni guerra è seguita una nuova ondata, prima gli afgani, poi i curdi, infine gli africani.
Mohamed ci racconta che il giorno prima del nostro arrivo la polizia ha raso al suolo una baracca dove i migranti erano soliti lavarsi. Le uniche docce vere si trovano all’Ospedale di Calais. Qui i sanitari forniscono un numero e ci si mette in fila. C’è anche un ragazzo afgano che zoppica sulle stampelle, è appena stato dimesso e ha un braccio e una gamba ingessati. Se li è fratturati nel tentativo di aggrapparsi ad un treno, di quelli che percorrono a 160 chilometri orari l’Eurotunnel per arrivare a Dover. È caduto. Gli è andata bene. Decine sono stati i morti negli ultimi anni, sventrati dai treni, schiacciati dai tir in imbarco nei porti di Calais e Dunkerque, o soffocati al loro interno, con sacchetti di plastica sulla testa per sfuggire ai rivelatori di anidride carbonica, nel disperato tentativo di portare a termine il loro
lunghissimo viaggio. (M.Benedettelli e G.Mastromatteo – Avvenire)