Nel declino dell’italiano, il declino di una società

L’alfabeto quotidiano

I primi immigrati che hanno affrontato a Firenze il test d’italiano valido per la carta di soggiorno se la sono cavata bene. Proprio per le tante difficoltà che gli stranieri in cerca di accoglienza e lavoro nel nostro Paese devono superare, questa prova sembra utile non solo burocraticamente: conoscere la lingua del luogo in cui si vive è necessario per esprimersi e comprendere ma soprattutto per farne davvero parte.
I primi immigrati che hanno affrontato a Firenze il test d’italiano valido per la carta di soggiorno se la sono cavata bene. Proprio per le tante difficoltà che gli stranieri in cerca di accoglienza e lavoro nel nostro Paese devono superare, questa prova sembra utile non solo burocraticamente: conoscere la lingua del luogo in cui si vive è necessario per esprimersi e comprendere ma soprattutto per farne davvero parte. Si comincia semplicemente, come i test fiorentini hanno indicato: se uno chiede un cappuccino siamo al bar o in pizzeria? Poter dire dove ci si trova è importante, il disorientamento verbale è anche un disorientamento mentale, e naturalmente la lingua aiuta l’apprendimento di un mestiere. I candidati fiorentini in massima parte hanno dimostrato di padroneggiare le parole necessarie per vivere in Italia ed esplicare con sicurezza le proprie competenze professionali. Non così – notizia sul giornale del giorno dopo – gli avvocati italiani. Sembra che questi ultimi soffrano di una crisi di legittimità verbale, proprio in senso letterale: infatti molti scrivono questa parola centrale del lessico legale con due g, cioè ‘leggittimità’, come in un film con Carlo Verdone. Ai membri del Consiglio nazionale forense da anni arrivano pessimi segnali: le prove scritte, all’esame di Stato per l’avvocatura, grondano virulenti errori di sintassi, di grammatica, di morfologia, e agli orali l’eloquio non incespica meno. Condizione singolare nell’ambito di una professione in cui non solo la parola è fondamentale, ma che ha dato alla storia della letteratura, basta pensare a Cicerone, un contributo straordinario. A complemento di questa notizia c’erano alcuni dati che dispiacerebbe passassero inosservati: informa il Centro europeo dell’educazione che ad avere gravi problemi di scrittura sono otto laureati su cento mentre venticinque su cento rischiano una regressione linguistica. E la cosa, almeno per me, più sorprendente è che ventuno su cento non capiscono chiaramente un testo scritto. Preso atto della situazione il Consiglio forense ha stabilito un progetto di corsi di lettura nelle scuole d’avvocatura e, in generale e nel caso dovessimo avere bisogno di tutelare qualche nostra legittimità con una g sola, non resta che augurare buona fortuna all’iniziativa. Non senza qualche dubbio: sono stati scelti ottimi libri di cui imporre la lettura, ma fatalmente diventeranno dei libri di testo, vale a dire dei libri obbligatori non diversamente dai codici, e non sempre un libro obbligatorio educa a quella navigazione tra le parole fino a sentirle proprie in cui consiste l’atto di leggere.  Cosa intendo con questo? Intendo che, come spesso si è detto senza grandi risultati, il problema viene prima, nell’età dell’apprendimento ed è la scuola a dover proteggere la formazione all’uso della parola dalla deformazione proposta dai reality show e dall’irresponsabilità sintattica grammaticale e lessicale che la nostra società tecnologica spensieratamente ci propone. Sia chiaro che battersi contro la scorrettezza ma anche contro la semplice bruttezza e miseria della lingua non è un obiettivo da anime belle culturali, una sentimentale nostalgia di un idealistico bell’eloquio. A cosa si riduce un uomo che non fa perno sulla parola e dunque sul pensiero e la sua capacità di responsabilità? Semplicemente a un conglomerato di appetiti. Sono quest’uomo e questa donna di grandi appetiti e di scarse e banali parole che spesso i media contemporanei ci presentano in guisa di eroi, scambiando le passioni con le più inelaborate pulsioni. I ragazzini ne fanno le spese, come racconta bene il libro Asino chi legge (Guanda) di Antonella Cilento: la scrittrice napoletana da anni frequenta le scuole italiane per insegnare scrittura e scopre nella desolante povertà di linguaggio dei suoi allievi una miseria di sogni e di immaginazione, dunque di speranza e di progetti, capitando persino in classi dove nessuno ha mai sentito parlare della fiaba di Cenerentola.
(Elisabetta Rasy – Avvenire)