Nell’ex Ambasciata

A Roma 140 somali vivono in condizioni disumane. Due testimonianze sulla loro situazione

Sono fuggiti dalla guerra in Somalia. Hanno attraversato deserto, mare e carceri libiche sfiorando la morte, e ora si ritrovano in 140 persone, abbandonati in condizioni disumane nell’edificio fatiscente della ex-ambasciata somala a Roma, paradosso estremo in una zona molto esclusiva della capitale. Sono i rifugiati somali di Via dei Villini – tutti titolari di un regolare permesso di soggiorno per protezione internazionale – che raccontano le loro difficili storie di vita, rese ancora più complicate dal fatto che in Europa, con il Regolamento Dublino II del 2003, si può chiedere asilo politico una sola volta nello Stato membro in cui si entra (in questo caso l’Italia). Quindi ogni tentativo di trovare fortuna in altri Paesi europei viene respinto al mittente. E qui in Italia, a quanto pare, la ricerca di un lavoro e di un alloggio dignitoso sembra essere, per loro, un’utopia. È da tempo che molte associazioni della società civile denunciano la situazione di Via dei Villini. Il 21 dicembre scorso Medici per i diritti umani (Medu) ha rivolto un appello alle istituzioni (Comune e Provincia di Roma, Regione Lazio, Ministero dell’Interno) per individuare con urgenza soluzioni di accoglienza dignitose e percorsi d’integrazione per i 140 rifugiati somali. L’edificio è infestato dai topi e sprovvisto dei servizi più elementari (luce, riscaldamento, bagni, servizi igienici). A un mese di distanza, in attesa che arrivino soluzioni concrete, Medu continua l’azione di supporto socio-sanitario ai rifugiati attraverso la propria unità mobile e ha iniziato a raccogliere le testimonianze dei rifugiati. Eccone alcune, ovviamente rispettando l’anonimato delle persone.

“La maggior parte delle persone se ne va perché qui non trovano niente… un lavoro, un corso, un posto dove stare… così vanno in altri Paesi, anche se sanno che li rimanderanno indietro perché hanno le impronte in Italia, ma fino ad allora passeranno sei mesi e allora qui farà caldo e non sarà così duro dormire fuori…”. A parlare è I., affetto da diabete, fuggito da Mogadiscio nel 2006 all’inizio della guerra tra il governo e le corti islamiche.
“C’è un mio amico che si è bruciato le mani per cancellare le sue impronte – racconta – così è riuscito ad andarsene e ad ottenere i documenti in un altro Paese. Ora è in Svezia. Un altro, per fare questo ha perso le dita delle mani che sono andate in gangrena. Ora è in Inghilterra, ha i documenti, ma non ha più le mani”. Storie che danno la misura della difficoltà, per un rifugiato, di cercare di trovare lavoro e migliori opportunità altrove. Molti di loro sono riusciti a trascorrere periodi più o meno lunghi in altri Paesi europei. Ma ogni volta che la polizia li intercettava e riconosceva le impronte, il ritornello era sempre lo stesso: “Tu sei Dublino…”. E via di nuovo in Italia.
“Siamo riusciti a stare nove mesi in Svizzera con la mia famiglia – racconta I. -. È stato un bel periodo che resta sempre nel mio cuore. Mi davano un po’ di soldi, andavo a scuola e speravo di trovare un lavoro, i documenti, un buon futuro e di poter vivere bene. Ma poi hanno scoperto che avevo le impronte in Italia…”. Nel frattempo la moglie, incinta, ha partorito il secondo figlio, ma in Italia ha iniziato ad accusare problemi psichiatrici. La famiglia è stata divisa: ora lei è alla casa di Madre Teresa “Dono di Maria, lui è tornato a via dei Villini, i figli separati dai genitori. “Questa vita è troppo difficile, non va bene – dice -. Penso però a quelli che sono in Somalia, dove continuano ad uccidere, alla mia famiglia, che aspetta soldi da me. Ma io non ne ho! Io sono andato via sperando di trovare un futuro”.
In Somalia “facevo il giornalista radio-televisivo, ma poi con la guerra e la violenza non si poteva più parlare, non si poteva più scrivere la verità. Molti giornalisti sono stati uccisi. Io sono stato minacciato di morte perché dicevo la verità. Per questo sono fuggito”: è la storia di A., 30 anni, che descrive una vita agiata a Mogadiscio, con moglie e famiglia, trasformatasi poi in un incubo. Il lungo viaggio attraverso l’Etiopia, il Sudan e poi la Libia, dove è stato in carcere 7 mesi.
“Il carcere in Libia è duro, durissimo – ricorda -. Si dorme sul pavimento, si mangia una volta al giorno e spesso picchiano con i manganelli. Sono riuscito ad uscire dal carcere solo pagando mille dollari al comandante dei soldati”.
La traversata del Mediterraneo, in una vecchia barca con 140 persone, è durata tre giorni, fino a Pozzallo, in Sicilia. Nel maggio 2009 A. riesce ad ottenere, dopo sei mesi, la protezione sussidiaria. È stato in Svezia sei mesi, dove si trovava bene, ma è stato rispedito in Italia. Ha tentato di nuovo con la Finlandia, per altri sei mesi, poi ancora in Olanda. Nulla da fare. “Tu sei Dublino…”. Il 23 dicembre 2010 è dovuto tornare nell’ex ambasciata di via dei Villini: “Ora devo restare per forza qui. Ora ho vissuto tutti i problemi di essere un Dublino e non me ne andrò più. Se potessi, tornerei a casa, se ci fosse la pace, ma la pace non c’è. Qui nell’ambasciata, di notte non riesco a dormire. Penso, penso sempre… non si fermano mai i pensieri. Penso sempre a questa vita difficile, al mio futuro, ogni giorno e ogni notte, ma penso che qui il mio futuro non esiste”.
(P. Caiffa)